Quest’estate il mondo intero ha assistito ad una tripla svalutazione della moneta cinese. L’evento, succedutosi nell’arco di tre giorni, ha colpito duramente l’economia mondiale, non solo in termini economici. La decisione del governo cinese di togliere valore alla propria moneta è stato un vero e proprio terremoto economico globale. Cerchiamo di capire cosa è successo, quali eventuali fini possono celarsi dietro una scelta così imponente e quali conseguenze ha scatenato e potrebbe scatenare in futuro.

In breve, prima della metà di agosto il governo svaluta la moneta, il Renminbi, la cui unità di conto è chiamata Yuan. In tre giorni la moneta perde il 4,65% del suo valore. Verso la fine del mese crollano le borse asiatiche e quelle occidentali di conseguenza. Il governo immette 140 miliardi di Yuan nel mercato e abbassa i tassi di interesse. Tra le tante misure tese ad allentare la rigidità del mercato di una delle più grandi economie mondiali si trova di tutto: apertura ai fondi pensione di investire in borsa, offerte allettanti per piccoli risparmiatori e tassi sempre più convenienti. Insomma, vista in una certa ottica, sembra che il gigante asiatico abbia calato le braghe.

Interpretazione precoce che spesso viene utilizzata dalle moltitudini di economisti che ormai hanno condannato la Cina alla decaduta economica e all’allontamento dal suo sogno di conquista globale. Proprio da qui bisogna partire per capire bene quali fini hanno spinto il governo mandarino a mettere in scena uno spettacolo economico-finanziario come quello delle ultime quattro settimane.

Partendo dalla teoria basilare si potrebbe subito pensare che una svalutazione è stata voluta per spingere le esportazioni, quindi stimolare la produzione verso l’estero. Un’arma vincente nel breve periodo se si vuol dar spinta all’economia, basta pensare che partiti come la DC in passato usavano questa strategia con la Banca d’Italia per raccattare voti sotto elezioni. Ma non è così semplice. Intanto vediamo perché. Per prima cosa, se anche la situazione sociale nel paese in questione non è delle migliori, difficilmente il Partito unico ricorre a strumenti economici per coprire il malcontento che più facilmente reprimerebbe con l’uso della forza. Più interessante è l’aspetto di politica monetaria internazionale e un tasso di crescita in forte calo.

Da sempre la valuta cinese è stata ancorata al dollaro e non è mai stata una valuta libera nel mercato internazionale. Tanto da non essere presente nelle riserve del FMI, il famoso “Basket”. Presenza molto vantaggiosa, una specie di pass per entrare nel club delle valute più potenti del mondo. Presenza che la Cina reclama: le sue richieste verranno esaminate proprio nell’ottobre di quest’anno ma un ingresso eventuale è previsto non prima del settembre del 2016. Presenza che prevede un prezzo da pagare: una svalutazione per essere competitivi. A supporto di questo, va detto anche che una svalutazione che possa incidere sostanzialmente sulle esportazioni dovrebbe toccare tassi del 20% come minimo e qui stiamo parlando di uno scarso quattro e qualcosa.

Una svalutazione lieve, invece, permette al governo di controllare meglio la moneta sul mercato. È come se essa fosse più dinamica e reattiva. Caratteristiche necessarie per chi vuole liberalizzare il suo mercato valutario ed entrare nelle riserve del FMI.

Le mosse economiche della Repubblica Popolare Cinese sono da sempre tra le incognite di meno facile lettura, però in questa occasione una prospettiva di apertura internazionale è molto plausibile. Un mercato interno da alimentare, un tasso di crescita ridiscusso dal 7 al 5 per cento e uno scenario economico sempre più globale potrebbero aver spinto i seguaci di Mao ad avvicinarsi al mercato internazionale. La forte volontà e necessità di mantenere una leadership nella produzione globale di molte merci e quindi nelle esportazioni potrebbe a questo punto rivelarsi il punto di partenza per un avvicinamento alla libertà economica di un intero paese?

 Italo Angelo Petrone -ilmegafono.org