L’elezione del presidente della Repubblica, in Italia, è come un mondiale di calcio, è un fenomeno nazional-popolare, uno di quei rari momenti nei quali qualsiasi cittadino si sente parte di un corpo unico, annusa di essere membro di una nazione e di condividere lo stesso destino con tutti coloro che ci vivono dentro. Un’overdose di parole, occhi incollati a ore di diretta, ragionamenti di qualsiasi tenore e livello, autoprodotti o frutto del sentito dire o dell’apprendimento per mezzo stampa. Non si è parlato d’altro per giorni, come se la presidenza della Repubblica fosse decisiva per il nostro futuro, come se in qualche maniera ci potesse risarcire della pochezza della politica che quotidianamente ci rappresenta, della povertà di argomenti, dell’indifferenza diffusa rispetto ai problemi che buona parte degli italiani vive quotidianamente.
La vicinanza del neopresidente alle difficoltà e alle speranze degli italiani, espressa con poche ed essenziali parole nell’immediatezza della sua elezione, ha ancor più ampliato questa percezione del carattere decisivo del ruolo e della scelta compiuta. La sobrietà dei suoi modi, la storia della sua vita segnata dalla violenza mafiosa, tutto ciò è parso, agli occhi di un popolo stanco, come una luce pronta a riscaldare un po’, non senza il solito retrogusto retorico che, come è costume, accompagna simili occasioni.
Personalmente, la vicenda che ha portato all’elezione di Sergio Mattarella, le manovre politiche, i litigi, le spaccature, gli equilibri saltati insieme alla solidità di patti perversi, non mi hanno appassionato, così come non mi ha investito la grande sbornia di speranze affidate a una istituzione che da tempo ha smarrito la sua forza, il suo potere di garanzia. Per carità, un presidente arbitro, come ha da subito ribadito Mattarella, che sia garante severo e rigoroso della Costituzione, è fondamentale, ma solo il tempo dirà se non assisteremo al solito triste ruolo di ratifica di decisioni discutibili assunte dal governo e dal parlamento.
Forse la causa della mia diffidenza è Giorgio Napolitano, il suo lunghissimo incarico caratterizzato da firme inaccettabili apposte senza nulla ribattere su leggi spesso incostituzionali o al limite della costituzionalità, senza mai far valere le prerogative che spettano, per diritto/dovere, a un Capo dello Stato. Prerogative a cui, invece, ha fatto immediatamente ricorso per schierarsi contro i giudici di Palermo che indagano sulla trattativa e che, giustamente, cercano di far chiarezza sulle telefonate e sui rapporti tra l’imputato Nicola Mancino e Loris D’Ambrosio, che di Napolitano era il consigliere. Sarà la storia a dirci se Mattarella saprà cancellare le ambiguità di un predecessore che, complice la debolezza di parlamenti e governi vari, ha anche esercitato una influenza eccessiva sulla gestione e sul corso della politica nazionale degli ultimi anni.
Di sicuro poco cambierà nel contesto economico e sociale italiano, perché le speranze e l’affetto nazional-popolare nei confronti di una istituzione rappresentativa non si traducono certo in misure e interventi necessari a combattere la crisi o a ridare forza a un Paese in ginocchio, divorato dalla disoccupazione e dalla precarietà, soffocato dalle mafie e dalla corruzione, privo di un welfare adeguato e di agenti sociali capaci di prendersi carico delle carenze di diritto e di accendere i riflettori sulle violazioni. Perché forse qualcuno, soprattutto tra commentatori e politici, non se n’è accorto, ma nelle settimane in cui i partiti hanno speso ore, giorni e notti a dibattere e a tessere la tela degli accordi e delle strategie sull’elezione del presidente della Repubblica, la crisi, il dolore, la rabbia, le difficoltà di chi si vede negare un futuro e si sente schiacciato dall’angoscia non hanno certo conosciuto un momento di pausa.
Tutto è semplicemente finito lontano dalla prima pagina, dall’ossessione mediatica per il presidente, dalle centinaia di commenti, dichiarazioni, tweet, post che ne hanno accompagnato l’elezione e il post elezione. Il segno che questo Paese non sa più riconoscere le priorità, non sa comprendere quanto sia profonda la lacerazione del tessuto civile e quanto ampia sia la distanza tra questo tessuto e quello politico, fatta eccezione per la connotazione popolare di quello che è ormai un rito della storia repubblicana. La parola d’ordine adesso è sempre più quella delle riforme. Lo ha auspicato Mattarella, lo ha ripetuto, con la solita tracotanza, il premier Renzi. Il problema è, però, capire che direzione prenderanno queste riforme. Perché, a parte quelle annunciate, i pochi provvedimenti presi, ad esempio in materia ambientale o di lavoro, sono un disastro. Per non parlare della legge elettorale approntata (anche con le modifiche alla soglia di sbarramento e al premio di maggioranza).
Forse, in questo, Mattarella può dimostrarci come vuole gestire il suo mandato: se, pur non rinunciando alla sua proverbiale sobrietà, intende fare da garante della Costituzione e da pungolo costante affinché il governo ascolti ed accolga le critiche e tuteli i diritti di tutti (e non dei poteri industriali ed economici che lo sostengono), oppure limitarsi a parlare a un interlocutore strafottente per poi ratificarne qualsiasi atto con la propria firma rassegnata e impotente. Questo è quello che conta, al di fuori delle illusioni, dei romanticismi sulla figura del Capo dello Stato (che ci trasciniamo, ogni volta fiduciosi, dai tempi di Pertini) e del formalismo, a metà tra il politico e il folkloristico, della sua investitura. Questo è quello che veramente “appassiona” e merita risposte. Nei fatti e non nei (seppur positivi ed elevati) propositi. Perché non serve avere un presidente della Repubblica di alto profilo in un’Italia piccola piccola.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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