Caro Pino, anzi Pino Maniaci (perché il tuo nome non può fare a meno del tuo cognome), ci conosciamo da cinque anni, da quella volta che ci hanno presentato durante uno degli eventi legati al premio Fava Giovani. La tua fama ti aveva preceduto, perché sapevo quel che già rappresentava la tua piccola e combattiva emittente a Partinico e in tutta l’area della Valle dello Jato. In quel freddo pomeriggio invernale, a Palazzolo Acreide, mi sono ritrovato seduto accanto a te al tavolo dei relatori in un incontro sul giornalismo indipendente. In quell’occasione, mentre il dibattito scorreva, la tua voce mi sussurrava all’orecchio i tuoi commenti sarcastici sulle cose che venivano dette e io dovevo faticare per restare serio. Poi, quando è toccato a te intervenire, le battute sono tornate ad essere solo un corollario, una forma per spezzare la tensione civile che caratterizza la tua vita e il tuo impegno.
Da quel giorno per me sei diventato un amico e da allora abbiamo condiviso anche due esperienze “letterarie” e un po’ di iniziative in giro per l’Italia. Mi mancava solo di venire a visitare la tua redazione, quella vecchia, con tre stanze in cima a una rampa di scale a due passi dal centro del paese. Un giorno di qualche anno fa, caro Pino, dopo un viaggio iniziato dalla mia Siracusa, attraverso i meravigliosi e verdi profili della Sicilia centrale e le montagne affacciate sul Tirreno, ci sono riuscito. Ho respirato Partinico, il clima di una città che è teatro delle tue lotte. Ho visto da vicino quelle stanze, dove, tra una battuta e una telefonata, tra un’intervista e le chiacchiere sui fatti del giorno, preparavi il telegiornale più lungo del mondo, che ora prepari nella sede nuova, quella inaugurata due anni fa. Due ore di diretta. Due ore in cui la parola viene liberata, senza paura, senza padroni né padrini. Nomi e cognomi di uomini piccoli quanto crudeli, mostruosi, spaventosi.
Mafiosi, boss e picciotti, colletti bianchi, fiancheggiatori, corrotti, collusi, complici. Ci sono tutti. Ogni giorno si beccano prese in giro e un insulto sempre uguale (“pezzi di merda”), come commento alle notizie sugli intrecci e sull’inquinamento mafioso che opprimono questa parte di Sicilia in lotta. Mi hai dato l’onore di condurre (cosa inedita per me) insieme a te. Di fare da spalla improvvisata alla tua ironia tagliente nei confronti di chi sporca la nostra terra e questo dannato Paese che lascia tremendamente soli gli uomini che lottano. Perché di mafia, caro Pino, non si deve parlare. Il governo, quello che ha Angelino Alfano come ministro dell’Interno, tace, salvo poi mostrare sorpresa quando qualcuno scoperchia Roma.
E quante Roma ci sono in Italia? Quante capitali di mafia ha questa nazione? Quante Partinico, Corleone, San Giuseppe Jato, ma anche Fondi, Casal di Principe, Locri, Platì, Bordighera, Sedriano, Brescello, Buccinasco ci sono dentro le strade in chiaroscuro delle provincie italiane? Quanti magistrati, giornalisti, sacerdoti, semplici cittadini si ritrovano a combattere nell’isolamento della lotta, senza che chi di dovere si premuri di inviare battaglioni di supporto?
Caro Pino, le risposte tu le sai, io ho imparato a conoscerle. Ho capito che questa è una guerra lunga, che non ci si potrà aspettare mai niente da chi ancora difende i codici criptati di una trattativa nella quale sono coinvolti i loro sponsor e padrini, da chi pensa che svelare i peccati che sporcano la coscienza di una città sia offensivo per la buona faccia dei cittadini che la popolano, invece di ringraziare e sostenere chi sta dando a quegli stessi cittadini la possibilità di guardarsi in quella faccia e provare a ripulirla dalle macchie infette, così da godere appieno della bellezza della libertà. Ti hanno “avvertito” ancora, caro Pino, hanno usato la solita vigliaccheria, cambiando solo il metodo. Non più il pestaggio, non più gli incendi ai tuoi mezzi e a quelli della tua Telejato. Pino Maniaci va colpito negli affetti, nella sua sensibilità, che, a dispetto di quanto il suo sarcasmo pungente provi a mascherare, è profonda e gentile, come può testimoniare chi lo conosce e ha potuto saggiare la sua amicizia e generosità.
Allora si parte dai cani, quelli storici tuoi e di Telejato. Te li hanno uccisi per darti un messaggio. Sei uno “scassa minchia”, come ti ha definito Pif in una puntata della sua vecchia trasmissione, e gli “scassa minchia” danno fastidio a chi fa coincidere i propri attributi con il silenzio e la violenza. E capita pure che diano fastidio alla gente, a quella parte di popolo che preferisce quel silenzio, perché è più comodo, richiede solo l’obbedienza e non costringe a guardare in faccia sé stessi e la propria dignità. Così qualcuno dirà o ha già detto, come sempre, che te li sei uccisi da solo i cani. Dirà o ha già detto che avevi bisogno di un po’ di visibilità. Al telefono mi hai assicurato che andrai avanti. Me lo hai ripetuto ogni volta che qualcuno ha provato a fermarti e io non mi aspettavo altra risposta.
Non da te. Perché andare indietro non è possibile per chi ha scelto, non da solo, ma con tutta la sua famiglia, di non piegarsi mai. Di continuare a informare e raccontare e denunciare, tre verbi riuniti dentro un’unica concezione di giornalismo, a cui attaccare anche una dose di coraggiosa e necessaria ironia. Quella che ti rende Pino Maniaci. Quella che nemmeno questa orrenda intimidazione ti toglierà. Caro Pino, io non lo so cosa accadrà, non so neanche cosa fare. La semplice solidarietà mi sembra inutile. Magari ti fa piacere, ma non serve. Non serve più, come ha detto Di Matteo qualche tempo fa.
Non so fare altro da qui, da questa Milano invernale, se non scrivere. Un po’ per abbracciarti, un po’ per sfogare la rabbia per tutto quello che non va. Per i ritorni indietro che questo degrado politico che sembra infinito ha prodotto. Per tutti i silenzi, le leggi annunciate e non fatte, quelle sbagliate e purtroppo approvate. Per tutta quella gente, nelle città e nelle provincie d’Italia, che per il proprio quieto vivere diviene complice materiale e morale di chi le frega il presente e le nasconde il futuro. Allora, caro Pino, so che andrai avanti, ma non ho il coraggio né il diritto di chiedertelo. Perché non sono lì fisicamente accanto a te a ripeterti che non sei solo.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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