Siamo giunti davvero alla resa dei conti tra il governo (del Paese e del Pd) e il sindacato, o meglio la CGIL, unica organizzazione che, a livello nazionale, sembra credere ancora nella lotta frontale per i diritti dei lavoratori, diventati il bersaglio principale di Matteo Renzi. Le parole gravissime e offensive dell’eurodeputato Pina Picierno contro la Camusso segnano una pesante rottura di un dialogo che questo governo non ha mai cercato. L’arroganza del premier e della sua squadra, la riforma unilaterale del mercato del lavoro, a tutto vantaggio delle imprese, e l’identificazione della CGIL come nemico numero uno da mettere all’angolo, costituiscono il terreno di uno scontro che, come già avvenuto con il governo Berlusconi nel 2002, si è radicalizzato attorno alla questione relativa all’articolo 18. Tutto si è giocato, a nervi tesi e con mosse studiate, attorno a questo tema-simbolo che da sempre mobilita lavoratori e sindacati.

Un milione e mezzo di persone sono scese in piazza, mentre furbescamente l’area renziana del Pd si è riunita, nello stesso giorno, a Firenze, con l’obiettivo, taciuto ma evidente, di togliere attenzione e spazio, anche mediatico, alle recriminazioni e al dissenso (interno pure al partito di maggioranza) provenienti dalla piazza di Roma. Renzi, con il plauso di Marchionne, Squinzi e del finanziere Serra (lo stesso che chiede interventi limitanti del diritto di sciopero), non arretra di un millimetro, ritenendo che i sindacati siano il freno allo sviluppo e che l’articolo 18 scoraggi gli investimenti da parte delle imprese. Intanto, nelle procure di tutta Italia continuano a venir fuori inchieste (e arresti) su mazzette, appalti truccati, infiltrazioni mafiose e così via. Ma non importa: i problemi, per il governo, si chiamano CGIL e articolo 18. Permettere di licenziare con maggiore facilità è considerato più importante che garantire controlli e legalità (e quindi la possibilità di investimenti puliti e di lavoro per tutti) nell’economia italiana. Misteri dell’innovazione post-rottamazione.

Torniamo allo scontro governo – CGIL. La Camusso accusa Renzi di essere sostenuto dai poteri forti, facendo riferimento a una frase di Marchionne (Renzi “lo abbiamo messo là per quella ragione lì”, ossia “togliere i rottami dai binari”) e a scelte che effettivamente sembrano andare in determinate direzioni (vedi ad esempio il decreto Sblocca Italia). La Picierno ribatte con accuse pesantissime sulla regolarità dei tesseramenti e soprattutto sulla partecipazione “pagata” di lavoratori/cittadini alla manifestazione di Roma. Nemmeno Sacconi e Berlusconi, come ha commentato Corradino Mineo, hanno toccato un punto così basso. Il sindacato si indigna, la Picierno rettifica e il Pd prova a limitare i danni. In tutto questo bailamme mediatico, però, a finire in secondo piano, come sempre, sono i lavoratori. In particolare gli operai dell’AST (Acciai Speciali Terni), che da mesi combattono una battaglia durissima per la difesa del proprio posto di lavoro e per la salvezza di una delle realtà dell’acciaio più importanti d’Italia.

Una vicenda su cui il governo ha tergiversato, evidentemente non giudicandola una priorità. Così, si è arrivati al punto più basso: le manganellate di mercoledì 29 ottobre, a Roma, con la polizia che carica gli operai in cammino verso il ministero dello Sviluppo Economico. Manganelli sui lavoratori, su padri di famiglia che difendono un diritto. Non è una novità, ma era da tempo che non si vedeva una cosa simile. L’inerzia del governo sulla questione AST ha portato a questo. Forse, tra una Leopolda e un’ospitata in tv, tra un annuncio e un autoscatto, sarebbe stato saggio trovare il tempo di andare a Terni da quegli operai, occuparsi di loro. Ma per questo governo la priorità è l’articolo 18, è togliere tutele ai lavoratori e rinviarle al raggiungimento dei tre anni di subordinazione presso un datore di lavoro. Sempre che ci giungano alla fine di quei tre anni.

E il sindacato? Senza l’unità ormai perduta, la CGIL ha battuto un colpo, probabilmente in ritardo, ma almeno lo ha fatto, ha dato voce a una parte importante del mondo del lavoro. Cofferati, però, nel 2002, ne portò tre milioni in quella piazza e il dato non è consolante. Si è perso terreno anche per colpe proprie. Prima di tutto il non essere riusciti a smentire l’immagine di un sindacato ridotto, in generale, a un mero centro di potere, a una fucina di carriere politiche, a una fabbrica di parlamentari, a un giardino chiuso rispetto ad alcuni problemi esistenti nei territori e aperto solo per alcune categorie di lavoratori, ormai non così maggioritarie. L’analisi sarebbe lunga e complessa, quindi mi limito alla sintesi. Nessuno può permettersi di mettere in discussione l’esistenza del sindacato, come fa Grillo, né permettersi, da capo del governo, di non trattare con esso. Le critiche però bisogna accettarle e ragionarci su, perché ne va del futuro di uno dei pilastri della storia democratica italiana.

Dinnanzi al cambiamento dell’economia, alle nuove forme contrattuali, alle nuove categorie di lavoratori, il sindacato non è riuscito a rinnovarsi. Ci sono milioni di lavoratori precari per i quali non è prevista alcuna tutela sindacale, per via della forma contrattuale o del particolare settore lavorativo. Per quale ragione non si è pensato a loro? Per quale ragione non si è approntata una struttura che, con una tessera ad hoc a un prezzo accessibile, garantisse tutele anche a loro sia riguardo ai diritti sia riguardo all’accesso o al reinserimento al lavoro? La CGIL ci ha provato ma con scarso impegno. Allo stesso modo vorrei sapere perché sono stati abbandonati molti luoghi di sfruttamento, visto che mi è capitato, occupandomi di caporalato, di trovare pochissimi sindacalisti schierati in prima linea per tutelare i diritti dei migranti impiegati nelle campagne come lavoratori agricoli e, in gran parte, vittime di sfruttamento. L’immobilismo è stato dannoso a livello generale, finendo col mettere in secondo piano le tante aree nelle quali, senza la presenza dei sindacati e delle tutele sindacali, assisteremmo a uno sfruttamento selvaggio dei lavoratori e a una umiliazione continua dei loro diritti.

Sono tante le domande a cui il sindacato dovrebbe rispondere con sincerità. A partire dal perché, al momento dell’approvazione del pacchetto Treu (approntato dal governo Dini ed emanato, nel 1997, dal governo Prodi), che ha introdotto senza adeguate contromisure la flessibilità nel mercato del lavoro, non si sono mobilitate le piazze, non si è agito contro quel governo con la stessa determinazione con cui oggi, giustamente, si agisce contro il tentativo di abbassare sensibilmente il livello delle tutele. Quella morbidezza durante i passati governi di centrosinistra, che in molti hanno spiegato con il legame stretto tra la CGIL e gli allora Ds, il principale partito di quell’area, è una macchia che un sindacato capace di rinnovarsi deve riuscire a cancellare.

A mio avviso, la mobilitazione contro il governo Renzi è un buon segnale, è il segnale che almeno la CGIL ha capito e, in un momento di violenta crisi come questo e con un governo che guarda più a Marchionne che agli operai di Terni o ai precari, ha scelto di stare con i lavoratori e di abbandonare l’inerzia e la moderazione. Un buon passo in avanti, ma adesso bisogna insistere, continuando a lottare e a mobilitarsi, ma affrontando anche il problema dei precari e non dimenticando i pensionati, i veri esclusi dalle mire di riforma di un governo per cui, evidentemente, gli unici anziani che contano sono i ricchi e potenti pregiudicati a cui si consente di partecipare alla modifica della Costituzione. Per il sindacato è un momento di vitale importanza, per sopravvivere e respingere le etichette populiste di chi opera per realizzare un mondo nuovamente dominato da padroni liberi di decidere le sorti dei loro schiavi.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org