Due sono i conflitti che nell’ultimo decennio hanno preso più scena all’interno dei teatri mediatici occidentali: la guerra in Iraq e quella in Afghanistan. Nella nostra ultima puntata del ciclo “Conflitti dimenticati”, focalizzeremo la nostra attenzione su questi due paesi. Preannunciamo, però, che non vi parleremo di dati macabri e non effettueremo cronistoria bellica, visto anche che le dinamiche dei conflitti sono note a tutti ormai. Ci soffermeremo molto brevemente, invece, sulla situazione geopolitica e sociale dei paesi in questione, prima di tentare di giungere a una conclusione, purtroppo non esaustiva, dell’intero ciclo.
La Repubblica d’Iraq vede terminare il secondo conflitto del golfo nel 2011, il 15 dicembre ufficialmente, quando avviene il passaggio definitivo di tutti i poteri alle autorità irachene da parte degli USA. Che cosa è l’Iraq ora?
La guerra era terminata de facto già qualche anno prima e aveva visto un vero e proprio rovesciamento culturale del paese. Sciiti e Curdi, da sempre emarginati e perseguiti, vedono finalmente la luce, ovviamente ai danni dei Sunniti. Questa ultima comunità, difatti, dopo l’invasione americana ha formato frange estremiste che hanno potuto così alimentare uno scontro religioso che per anni ha trucidato il paese, ancora ora in condizioni di pessima continuità democratica. Dal 2006 l’Iraq era in una vera e propria guerra civile.
Oltre al fatto certo che le armi di distruzione di massa non furono mai trovate, un rapporto della CIA del 2002, desecretato nel 2008, dichiara che non vi fu mai alcun rapporto tra governo iracheno e l’organizzazione terroristica al-Qa’ida. Le Nazioni Unite, invece, tramite un rapporto del relativo programma alimentare, dichiarano che le condizioni di vita per i bambini, con i governi dopo la guerra, non sono migliorate, anzi, lo studio asserisce che le condizioni sono peggiori dopo la caduta del regime di Hussein per via del non accesso agli aiuti umanitari previsti dal programma internazionale ONU. Ci fermiamo qui, pensando possa bastare.
Il caso dell’Afghanistan invece vede portare la nostra attenzione su un personaggio famoso: Hamid Karzai, il presidente. Il politico in questione è stato al centro di diversi scandali elettorali: noto come il “Sindaco di Kabul”, ha da sempre tessuto una forte rete sia con le autorità centrali che con i territori lontani dalla capitale, quelli più difficili da ammaestrare. Fratello di Ahmed Wali Karzai, un ex-collaboratore della CIA nonché presunto trafficante d’oppio, il presidente Karzai, simbolo occidentale della rinascita democratica afgana, è anche un ex-consulente petrolifero.
Nel 2009 la sua vittoria elettorale vede l’accusa di brogli da parte dell’opposizione. Accusa accolta. Lui però vince le elezioni ripetute, per via della non ripresentazione dei suoi avversari che temevano ulteriori brogli. La forte intesa con Bush, il rigetto di una proposta USA per fermare il traffico d’oppio e il suo predominio relazionale nella nazione, lo rendono forse uno dei personaggi più opachi dell’intero conflitto e post conflitto afgano. Anche qui, desideriamo non andare oltre, lasciare a voi lettori spunti e riflessioni su un territorio che non ha visto ancora la pace e non la vede da anni.
Il nostro ciclo si conclude e, dopo aver affrontato anche i casi del Sud Sudan, della Repubblica Democratica del Congo e della Libia, non si possono non affrontare alcune questioni, se pur delicate. Mai e poi mai, come nel caso dell’Iraq, qui si vuole anche solo lontanamente difendere un dittatore, uno sterminatore, un assassino quale poteva essere Saddam Hussein. Mai. Invece si vuole porre un altro quesito, lo stesso che potremmo dedicare alla Libia di una altro dittatore come Gheddafi: perché in questi territori gli interventi di pace hanno peggiorato la situazione sociale ed economica, oppresso parti di popolazione intere e hanno fondato democrazie poco autonome a livello decisionale? Spesso, proprio i gruppi religiosi da sempre perseguitati o esiliati hanno ribaltato l’intero massacro prendendo di mira esattamente il gruppo che prima di loro deteneva il primato culturale. Situazioni di frequente speculari.
Nei casi africani invece ci si potrebbe chiedere perché la comunità internazionale è stata così scialba pur essendo presente con truppe di pace. Molte sono le risposte, troppe. Potrà una revisione del concetto di “intervento di pace” giovare a tutto questo? Forse sì, forse la comunità internazionale deve iniziare a ristrutturare il concetto di “risoluzione dei conflitti” onde evitare che la filosofia attuale sbocchi in una mera “sostituzione di conflitti”.
C’è chi dirà che la storia farà il suo corso e la prosperità democratica passa per il sangue e le vite di molti innocenti, e questo è estremamente vero, la Repubblica italiana stessa ne è figlia. Forse noi occidentali non dovremmo avere sempre la presunzione di aver compreso la storia e umilmente vivere e lottare per il presente, il nostro presente e quello di un mondo che sta vivendo un momento raro e difficile del suo cammino verso la libertà dell’animo umano.
“Quando si muore, vecchi o giovani che si sia, si perde tutti la stessa cosa: il presente, la vita che si sta vivendo in quel preciso istante.” (Marco Aurelio).
Italo Angelo Petrone -ilmegafono.org
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