Per una volta non è il caso di fare nomi, perché uno dei motivi per cui si riflette un po’ prima di scrivere su certi fatti è che devi calcolare bene il rischio di fare pubblicità a qualcosa di assolutamente scandaloso e diseducativo che, forse, se passasse sotto silenzio, non sarebbe poi una tragedia. Il problema, però, è che intanto è comunque arrivato alle teste e ai pensieri di un certo numero di persone, ossia i lettori di un settimanale abbastanza noto (al di là del suo valore o del giudizio che se ne possa dare) e del relativo sito. Allora sei costretto a non ignorare, ti senti in dovere di ribadire certi concetti, soprattutto se in giro, ad eccezione di Giulio Cavalli e del suo blog, scopri un silenzio strano, insolito. Per tale ragione alla fine scegli di parlarne, ma di non nominare la protagonista principale di questa vicenda, il suo nome, soprattutto il suo cognome, né i membri della sua famiglia. Ma l’identikit è facile e basterà qualche rapida ricerca sul web per capire a cosa e a chi ci si riferisce.
Diciamo che si tratta di una ragazza che pensa di essere vissuta in una fiaba, di esser cresciuta nell’amore di un padre e una madre che, per ragioni che lei non comprendeva (e finge ancora di non comprendere), dovevano spostarsi di continuo, cambiare spesso residenza. Un ritratto familiare pieno di tutte le cose belle: un padre che ti adora e passa il suo tempo libero leggendo libri (il suo hobby preferito), soprattutto sulla storia della Sicilia, una madre diplomata che ti fa lezioni personalizzate (perché a scuola, per qualche motivo sconosciuto, non ti ci fanno andare) e ti insegna l’amore per l’arte. E poi la sorella e i fratelli, tutti uniti, pronti a coccolarsi, a proteggersi. Una bellezza, un sogno. La figura dominante, per forza di cose, è quel papà che stravede per lei e che ancora oggi, da lontano, nelle lettere che le spedisce, la chiama con un affettuoso diminutivo.
Un uomo “ottimista”, con tanta “gioia di vivere” e l’ostinazione di “andare sempre avanti senza arrendersi”, tutte qualità che lei dice di aver ereditato grazie al “feeling speciale” creatosi tra loro. E poi lo zio, il fratello della madre, un uomo che le ha trasmesso l’amore per la pittura e di cui conserva gelosamente i quadri. Sembrerebbe una storia qualunque, anche abbastanza banale, il racconto di una famiglia unita e comune, con le uniche stranezze dei continui spostamenti (ma chissà, magari il padre è un soldato, un colonnello dei carabinieri, uno sportivo o un allenatore), della scuola fatta in casa dalla mamma e del destino sfortunato dello zio pittore, finito chissà come mai dietro le sbarre. Per il resto, un’infanzia all’insegna “della gioia e della serenità”, una “fiaba”.
Così, infatti, la descrive lei stessa, in un’intervista rilasciata a tale Siana Vanella (questo è l’unico nome che mi concedo di fare) per Panorama. Peccato che quella ragazza innamorata dell’arte e della famiglia non sia la figlia di un colonnello, né di un allenatore, ma di un boss spietato, violento, ignorante, che stentiamo davvero a credere che possa provare sentimenti positivi e soprattutto avere come hobby la lettura. Viene difficile persino pensare che sappia leggere, visto che a sentirlo parlare non sembra proprio a suo agio con la lingua italiana. L’unico amore che concediamo a tutta questa storia è quello criminale della moglie per quella belva umana, quell’uomo rozzo e sanguinario, potente, perfettamente in sintonia con il fratello della signora (il “pittore”), anch’egli criminale, un killer spietato che in carcere non ci è certo finito per un furto di galline. La favola che la realtà ha svelato è completamente diversa da quella che la ragazza intervistata si è raccontata e prova a propinarci.
Sia chiaro, non trovo peccaminoso il fatto che si lasci parlare la figlia di un boss. Né è giusto pensare, a priori, che anche lei sia automaticamente una criminale, tout court, per legame di sangue. Il problema, o meglio lo scandalo, è lasciare che possa descrivere la sua famiglia come un esempio di amore, come una famiglia “normale”, che ci dipinga un padre bonario e colto, ottimista e gioioso. Perché in realtà sappiamo tutti chi è davvero. Ma in questa distorsione della verità a risultare tremendamente ignobile, più di ogni altra cosa, è la complicità della giornalista, l’inchino indecoroso che, con questo suo metodo di racconto, offre alla più giovane rampolla di una famiglia che ha insanguinato il Paese, segnandone la storia irrimediabilmente e continuando probabilmente a farlo.
Non si può lasciare totale libertà di parola a questa ragazza senza porre domande dure, nette, contrastanti con la sua visione finta e strumentale della figura del padre. Non si può accettare l’assenza di quesiti incalzanti sulle stragi, sulla morte di centinaia di persone, uomini dello Stato, innocenti. Né che le si permetta persino di raccontare il suo amore per i bambini, di criticare il modo in cui lei bambina veniva trattata nel parlatorio di Rebibbia, durante le visite al padre detenuto.
Perché non chiederle del piccolo Giuseppe Di Matteo, rapito, strangolato e sciolto nell’acido? Perché non chiederle dei figli e delle figlie a cui la strategia folle e sanguinaria del congiunto hanno tolto padri, madri, parenti? Perché non domandarle cosa ne pensi delle ultime vicende del caro papà, di quelle parole orribili, delle sentenze di morte, di quei dettagli schifosi sugli assassinii di servitori dello Stato, di persone che davvero sapevano amare, non solo la famiglia ma soprattutto il prossimo, il cittadino, il Paese?
Per non parlare poi del silenzio sulle vicende criminali dei fratelli. Panorama e la sua giornalista (immaginate la difficoltà nel definirla tale) hanno fatto un assist scabroso alla mafia, alla sua cultura, a quella smania di rendere umani personaggi che non lo sono, a quel tentativo di depurarne l’immagine, probabilmente per far comodo a qualcuno, magari a qualche lettore o forse al suo editore. Che poi è lo stesso che ha ospitato, sulle proprie reti tv, la fiction “Il Capo dei capi”. Altra porcheria, altro inchino indecoroso. D’altra parte, non è poi così strano se si pensa che per qualcuno di quel gruppo editoriale, Vittorio Mangano era un eroe.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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