Vorrei chiedere alle istituzioni, ai ministri, ai colleghi giornalisti perché mai bisogna accettare l’abitudine di arrivare sempre dopo, di scoprire il dolore che si svolge ogni giorno dietro casa nostra, alimentato dalla nostra indifferenza. Vorrei sapere perché mai dovremmo proseguire con la tradizione dell’indignazione postuma, conquel mosaico triste di facce, parole, promesse che sembrano quasi un copione prestampato e pronto all’occorrenza ogniqualvolta che una situazione già ampiamente nota e dibattuta diventa improvvisamente, grazie alla tragedia e al suo far notizia, una scoperta incredibile e imprevedibile. Vorrei sapere perché si parla di legalità e di sfruttamento selvaggio solo dopo che una fabbrica di schiavi esplode e brucia la carne e i sogni di sette persone a cui la dignità è stata violata a lungo.
Vorrei capire la ragione per la quale se a morire sono cinesi schiavizzati in una fabbrica gestita da cinesi, priva di diritti e di sicurezza, la reazione diffusa e istantanea è quella di snobbare le vittime e di addossare questa inconcepibile vergogna a quell’area di immigrazione, farcita di tutti gli stereotipi che si prestano alle generalizzazioni, come fosse solo una loro questione, come se lo sfruttamento fosse appannaggio di un’etnia, di una razza, di una cultura. Vorrei comprendere perché, se muoiono degli stranieri, il dolore per le vittime deve essere soffocato, sporcato da centinaia di parole e ragionamenti sulla loro presenza, sull’impossibilità di gestire l’immigrazione, sul “loro sono tutti così”, sulla improcrastinabile necessità di porre un freno agli ingressi.
Mi piacerebbe vedere per un attimo le lacrime civili di chi è responsabile tanto quanto lo sono i gestori di quella fabbrica, di tutti quei colpevoli di indifferenza, inerzia, latitanza nell’attuazione dei controlli, di tutti coloro i quali si sono lasciati ingrassare da quell’olio dal sapore frusciante che copre qualsiasi intolleranza, qualsiasi xenofobia: il denaro, quel maledetto virus che corrompe i tessuti delle istituzioni, annacqua in un istante i confini con la legalità, con la morale, con l’umanità. Mi piacerebbe sapere cosa ha fatto la politica in questi anni, per combattere le perpetue sopraffazioni subite da gente che ha la sola colpa di essere schiava di un bisogno e che per quel bisogno muore ogni giorno, psicologicamente prima che fisicamente.
Vorrei che ci fosse un po’ più di rispetto per la verità, che si confessasse che da anni è risaputo il livello di sfruttamento nell’ambito delle industrie tessili, spesso con la complicità delle grandi marche che affidano le proprie produzioni, in nero, a questi lager moderni, dove si consuma la vita di centinaia e centinaia di persone. Vorrei vedere chi ha il coraggio di affermare di essere all’oscuro delle infiltrazioni criminali, italiane e cinesi (e non solo), in questo affare che genera profitto e morti silenziose. Vorrei che qualcuno avesse il coraggio di sostenere pubblicamente che lo sfruttamento denunciato in passato riguardo a ciò che avviene nelle campagne italiane, a partire da Rosarno, sia stato definitivamente cancellato, “risolto”, rimosso. Vorrei che si avesse la faccia tosta di dirmi che questo sfruttamento e il lavoro senza condizioni di sicurezza riguardano solo i luoghi marginali dell’economia italiana e non anche le grandi industrie, l’edilizia, i mercati ortofrutticoli e via dicendo.
Vorrei allora che mi si spiegasse cosa è accaduto alla ThyssenKrupp di Torino o cosa accade ogni giorno in tantissimi luoghi “normali” nei quali lavoratori italiani e stranieri, unificati in questa condizione atroce, muoiono guadagnando a stento il titoletto di un giornale e la dichiarazione di qualche sindacalista che urla che certe cose “non possono più accadere”. Certo, so benissimo che in uno stabilimento industriale regolare la situazione è differente da una azienda tessile cinese nella quale vi sono dormitori clandestini e abusivi, spazi limitati e orari di lavoro massacranti, a cui si aggiunge, per via di una cittadinanza dimezzata o inesistente, una profonda fragilità nelle opportunità di rivendicazione e di sindacalizzazione, di liberazione dalla schiavitù. Ma non mi si dica che non erano altrettanto penose le condizioni di sicurezza e i turni massacranti che costarono la vita, anche in quel caso (la Thyssen), a 7 persone, arse per responsabilità di chi mette il profitto al di sopra di tutto. Produrre, produrre, produrre. Correre, accelerare anche quando le gambe sono stanche e le mani corrose dalla stanchezza.
Mi piacerebbe sapere se, al di là delle discussioni sui controlli e sugli interventi atti (e necessari) a smascherare e chiudere luoghi come la fabbrica tessile di Prato, qualcuno sta pensando anche a rivedere il modello economico che ci domina e le sue logiche che si prestano perfettamente allo sfruttamento, arrivando quasi a legittimarlo. Vorrei soprattutto sapere quanto tempo impiegheranno legislatori, istituzioni, enti, cittadini, opinionisti da balera, a capire che non è chiudendosi e negando diritti che si eliminano queste situazioni, ma che al contrario è solo rendendo più semplici le procedure per la regolarizzazione e più immediati e azionabili gli strumenti di denuncia del lavoro nero, oltre che facilitando l’acquisizione della cittadinanza, che si potranno ridurre sfruttamento, emarginazione, isolamento e garantire più sicurezza, integrazione e ricchezza economica e culturale.
Vorrei sapere se è ancora rimasto un attimo per pensare, per rallentare, per ragionare di tutto questo con onestà e senza la guida di preconcetti stupidi. Vorrei tante cose, ma credo che questo non sia un Paese che risponda e che accetti discorsi diversi dalla retorica o dall’arroganza. Abbiamo poco tempo e poca voglia di risolvere le questioni con maturità. Ci riesce molto più facile piangere (sempre più raramente) o sbadigliare.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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