Il malessere accumulato negli ultimi vent’anni dalla popolazione campana, tra sversamenti illegali e omertà politica, è esploso nelle ultime settimane sospinto da reportage scottanti, proteste di massa, tweet ed articoli condivisi sui profili social, trascinando di forza l’opinione pubblica sulle numerose questioni sollevate dalla Terra dei Fuochi. Tutti conosciamo a grandi linee il susseguirsi degli eventi, che, secondo molti, costituiscono soltanto la famigerata goccia che fa traboccare un vaso straboccante di rifiuti tossici, un vaso che lo Stato ha finalmente deciso di riparare, o almeno si spera.

Il 3 dicembre scorso, il ministro dell’Agricoltura, Nunzia De Girolamo, campana d’origine, annuncia soddisfatta su Twitter l’approvazione di un Decreto Legge che sancisce il reato di combustione dei rifiuti, tra le principali concause del progressivo avvelenamento dell’entroterra partenopeo e della Campania tutta.

Commenti positivi anche dal ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando, e dal Premier incaricato Enrico Letta, convinti di avere intrapreso la strada giusta per riconquistare la fiducia dei cittadini. A latere del decreto è prevista la militarizzazione delle zone interessate, per ulteriori controlli sugli sversamenti e i roghi abusivi, oltre che la perimetrazione dei suoli avvelenati. Tutto molto bello, in teoria. Ma i cittadini, supportati da Don Maurizio Patriciello, chiedono di risolvere il problema a monte. Chiedono di vietare all’Italia intera di considerare la Terra dei Fuochi come discarica naturale e necessaria del Paese, chiedono finanziamenti per la bonifica che non può avvenire in pochi anni, vista la tossicità accumulata nel tempo.

Per quanto la voglia di lottare e di riaffermare la propria dignità sia ancora forte, sembra ormai evidente che la Terra dei Fuochi abbia bisogno di qualcosa in più che un Decreto Legge. E in tal senso si è alzata la voce di Raffaele Cantone, giudice della Corte di Cassazione che chiede alle istituzioni di fare chiarezza sui reali livelli di inquinamento dei suoli. Al di là della chiarezza, dell’agognato intervento dello Stato, vi sono ferite che faticano a rimarginarsi, quelle ferite che il silenzio di vent’anni ha continuato ad ampliare, senza mai curare l’infezione che ha continuato ad espandersi.

La militarizzazione dei territori, così come avvenne pochi anni fa durante il periodo dell’emergenza rifiuti, rappresenta la fase terminale della malattia, una sorta di amputazione, un intervento di forza che, come tutti gli atti di violenza poteva essere evitato, se solo avessero smesso prima di gettare polvere sotto al tappeto.

Laura Olivazzi -ilmegafono.org