Ci sono scelte che fanno rumore nella loro semplicità quasi ovvia. Fanno rumore perché coprono un silenzio che è ancora più assordante, nella sua inspiegabile persistenza. Un silenzio lungo anni, interrotto di tanto in tanto dalle peggiori parole e dai gesti più infami che si potessero ascoltare e osservare in questo Paese. Papa Francesco ha scelto: sarà Lampedusa la tappa del suo primo viaggio apostolico. Porterà la sua voce autorevole e il suo esempio tra gli scogli e le acque di un’isola meravigliosa, dove la vita combatte con la morte e cerca di resistere accanto alla disperazione di migliaia di esseri umani, di un Cristo stremato che assume sembianze e tratti somatici differenti, che è uomo, donna, bambino, neonato. Un Cristo smagrito e disidratato, che non sa camminare sulle acque e che su quelle acque, tante volte, 20 mila volte almeno, ha lasciato e lascia gli occhi drammaticamente aperti di una coscienza che l’Europa non ha ancora imparato a esaminare.
Il pontefice, figlio di emigranti, su quel mare depositerà una corona di fiori, ma soprattutto porterà finalmente la presenza di una istituzione, la Chiesa, che ai suoi vertici è stata colpevolmente assente o, ancor peggio, sostenitrice e complice di forze politiche che quel Cristo lo hanno rinchiuso, sfruttato, umiliato, criminalizzato, derubato e perfino respinto, lasciato morire nel buio umido dell’indifferenza. Chiederà scusa non ufficialmente ma intimamente, come segnale di cambiamento, come inversione di rotta, richiesta a gran voce dal basso, dall’interno di chi vive la propria fede sui marciapiedi del mondo, lontano da sfarzi, riti vacui e formalismi blasfemi. Chiedere scusa anche a sé stessi, perché tutti quei preti e quei vescovi che si sbracciano nelle periferie dimenticate del pianeta e dell’Italia hanno trovato nelle gerarchie vaticane il nemico più feroce, forse meno atteso, sicuramente il più irritante.
Papa Francesco ha scelto, ha avuto il coraggio di mostrare l’autorità spirituale del suo ruolo, nel senso più positivo di tale concetto, annunciando un viaggio a sorpresa, dopo le parole profonde e drammaticamente vere del parroco di Lampedusa, don Stefano Nastasi, e del sindaco, Giusi Nicolini. Per questa ragione, oltre al sindaco, non ha voluto altre autorità al suo fianco, a parte il vescovo di Agrigento, mons. Montenegro, e appunto don Stefano, da sempre impegnati in prima linea nella battaglia per i diritti dei migranti. C’è chi pensa che questa sia solo “scenografia”, che non serva a nulla e nulla risolva.
Lasciatemi dire che da laico, da non credente, personalmente non condivido questo scetticismo, né la sottovalutazione di quello che, nella sua parvenza immediata, sarà pure un semplice gesto, ma nella realtà è un atto di fede e al contempo politico che evidenzia impietosamente le responsabilità di una classe politica incapace, per anni, non solo di agire ma anche di mostrare un minimo di umanità. Lampedusa è rimasta sola a gestire localmente gli effetti di una globalizzazione edificata sullo sfruttamento dei popoli delle nazioni più povere, sull’usurpazione delle risorse primarie, sul mercato delle armi per armare guerre spietate tra regimi complici.
In questa solitudine ha imparato al meglio l’umanità, ha compreso e oggi chiede che l’Europa intera (e l’Italia per prima) si decida a far qualcosa per modificare la sua fisionomia di “cittadella fortezza” che sbatte le porte in faccia a migliaia di disperati, costretti ad attaccarsi allo scoglio di un’isola in mezzo al mare, ultima speranza di camminare verso il futuro. Papa Francesco, con la sua decisione, dà un segnale chiaro a tutti, al Vaticano e alla politica, a quei finti cattolici che, nel centrodestra come nel centrosinistra, hanno vomitato leggi criminali e umiliato la dignità di uomini e donne.
Costringe chi ha taciuto colpevolmente per troppo tempo, come il cardinale Bagnasco, a parlare di segnale di speranza e di società di accoglienza. È un punto di svolta, o almeno lo speriamo tutti quelli che, credenti o no, in questi anni abbiamo aspettato vanamente una parola, un gesto, un atto che fossero anche solo la proiezione di quello che tanti cittadini, cattolici e non, attivisti, sacerdoti, vescovi fanno in tante parti d’Italia, da Nord a Sud.
Speriamo che non sia soltanto un giorno, un momento di riflessione che poi non produca un reale effetto sulla percezione del fenomeno e una spinta alla solidarietà attiva da parte dei cittadini italiani e di chi li rappresenta. Soprattutto speriamo che sia il suono di una sveglia, il trillo di campanella di una lezione evangelica e civile per tutti quei fedeli che “si battono il petto” una volta a settimana, davanti a un Cristo inchiodato su una croce di legno, dimenticando poi di tendere la mano ai tanti Cristo, in carne e ossa, che incontrano per strada. A Lampedusa come a Palermo, a Napoli come a Roma, Firenze o Milano.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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