I Mapuche sono un popolo orgoglioso. Hanno resistito per secoli ai conquistadores spagnoli per poi arrendersi, alla fine del diciannovesimo secolo, agli eserciti di Cile e Argentina. I discendenti dei Mapuche vivono attualmente nei territori meridionali di Cile e Argentina e alcuni mantengono le proprie tradizioni e le loro terre, mentre altri si sono trasferiti in città o all’estero in cerca di migliori condizioni economiche. Altri ancora, invece, devono combattere contro uno degli aspetti più crudeli di una globalizzazione economica priva di regole e di morale. I Mapuche della Patagonia, da oltre vent’anni, sono infatti in guerra con l’azienda italiana Benetton, che ha acquistato il 10% delle terre della Patagonia per allevarvi pecore da lana.
Dopo un lungo processo intentato dalla popolazione indigena contro il gruppo italiano, un tribunale argentino nel 2011 ha dato ragione a Benetton, ordinando lo sgombero delle terre su cui alcune comunità Mapuche si erano reinsediate. Il tribunale ha ordinato lo sgombero delle terre in netto contrasto con l’articolo 75 della Costituzione argentina che prevede che “siano riconosciuti i diritti degli indigeni al possesso e alla proprietà delle terre occupate tradizionalmente”. Ma i Mapuche non sono le uniche vittime del “neocolonialismo economico”.
Dal 2001 ad oggi, nei paesi in via di sviluppo, un’area grande quanto l’Europa orientale, ossia 227 milioni di ettari, è stata venduta o ceduta in affitto a delle multinazionali. Secondo il rapporto di Oxfam Italia, dal titolo “La nuova corsa all’oro. Lo scandalo dell’accaparramento delle terre nel Sud del mondo”, la maggior parte di queste terre, da qualche anno, è utilizzata per la produzione di cibo destinato all’esportazione o di biocarburanti. Nel suo rapporto, Oxfam sottolinea che il “land grabbing”, l’accaparramento di terre, è effettuato mediante accordi “su larga scala, violando i diritti umani, ignorando i principi della partecipazione democratica, della trasparenza e del consenso libero, preventivo e informato delle comunità che utilizzano quella terra”.
Le vittime di questo fenomeno, tipico del neocolonialismo economico, sono le popolazioni come i Mapuche, alle quali rimane sempre meno spazio per coltivare le proprie terre e le proprie tradizioni. Nella sua analisi, diffusa in occasione del “No Land Grab Day”, Oxfam prende in considerazione cinque casi, Uganda, Indonesia, Guatemala, Honduras e Sud Sudan, cercando di comprendere quale sia l’impatto del “land grabbing” sulle comunità. In tutti i casi, ci sono società come la New Forest Company (Ntc), un’azienda britannica attiva in Uganda e specializzata nella produzione di legname, che si definiscono “socialmente responsabili” e si gloriano di campagne internazionali per lo sviluppo sostenibile e la lotta ai cambiamenti climatici.
“Il caso dell’Uganda mostra chiaramente come l’accaparramento di terre privi le popolazioni vulnerabili di qualsiasi rete di protezione. Migliaia di persone sono in grande difficoltà dopo esser state trasferite ed espropriate dei loro beni, senza essere consultate o ricompensate”, avverte Jeremy Hobbs, direttore generale di Oxfam. “Oxfam chiede agli investitori, ai governi, e alle organizzazioni internazionali di porre fine al land grabbing, cambiando le attuali politiche che non garantiscono procedure partecipate e un equo trattamento delle comunità locali, né il rispetto delle norme internazionali”.
Sempre in occasione del “No Land Grab Day” del 7 febbraio scorso, Oxfam ha lanciato un appello alla Banca Mondiale, perché congeli i propri investimenti nelle compravendite di terre. “La corsa all’accaparramento dei terreni vede ogni secondo un’area grande come il Colosseo venduta a investitori stranieri” e rubata alle popolazioni che, come i Mapuche in Patagonia, vi hanno sempre vissuto.
G.L. -ilmegafono.org
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