Nella giostra quotidiana del nostro vivere si muovono migliaia di volti, colori, sguardi, stati d’animo, atteggiamenti. Una pluralità di individui, esperienze, vissuti. Eppure, sfogliando l’album del panorama che ti circonda ogni giorno, troppe volte non riesci a visualizzare le differenze, a distinguere le caratteristiche. Siamo un mondo che si omologa spesso, anche quando presume di essere fuorimoda. Siamo occidentali, più o meno salutisti, in continua dieta, attenti a non “steccare” l’abito e l’abbinamento, maniacali nel non trascurare le mode. Siamo la parte di umanità che usa di più le dita, che battono o scivolano frenetiche su schermi e tastiere. Siamo il popolo a testa in giù, con l’occhio rivolto sempre a uno smartphone, un tablet, un iPod. Siamo quelli che si stanno abituando ad esprimersi quanto basta, anzi meglio dire “qb”, perché siamo anche il popolo delle sigle e dei diminutivi, che così almeno su twitter risparmiamo spazio.
Non è questione di rete, di internet o di virtuale, ma di pensiero, libertà, confronto. Ci stiamo adeguando a consumare tutto rapidamente, non solo sul piano materiale, ma anche su quello del pensare, del dibattere. La politica lo ha capito e così ha scelto di esaltare la propria ormai diffusa vocazione ad esprimersi per slogan, senza approfondirne il senso reale. Che è più conveniente. E ai cittadini sta bene, perché tanto è il marchio dei tempi, di un’epoca in cui troppo spesso si rinuncia, specie nelle grandi città, a quel contatto umano che riporta tutto alla sua essenza. Metro, tram, ristoranti, autobus e persino le vie delle città sono piene di persone che non comunicano o lo fanno molto meno. In questo modo si sviluppa la logica della chiusura, della non inclusione, del senso di disturbo per il vicino che prova a parlare con noi, sforzandosi di trovare un argomento che ci trascini fuori da un isolamento automatico e spesso inconsapevole.
Qualche giorno fa, un’anziana signora al semaforo mi ha salutato e, essendo immediatamente ricambiata, ha trovato il coraggio di individuare un argomento di discussione: le auto che sfrecciano e l’utilità di quel semaforo, la paura di essere prima o poi investita. Niente di più, niente di importante, ma quella signora, appartenente ad una generazione ben lontana dalla mia e da quelle successive, ha fatto quello che avrebbe fatto mia nonna e probabilmente qualsiasi altra persona di quell’età. Retrò? Vintage? No, forse loro hanno mantenuto quel minimo di umanità che oggi stiamo perdendo, generando un sentimento crescente di esclusione di tutto ciò che ci appare diverso, altro, lontanissimo.
Domenica scorsa, per un’inchiesta per Altreconomia, sono andato al campo Rom di Baranzate, dove 350 persone, tra cui bambini, donne, anziani e malati, hanno ricevuto l’ordine, da parte della Regione Lombardia, per tramite dell’incaricata Infrastrutture Lombarde, di abbandonare le loro case realizzate su terreni che esse stesse hanno acquistato circa 25 anni fa. Motivo? La realizzazione di una bretella di collegamento tra Molino Dorino e l’A8 (l’autostrada “dei Laghi”), nell’ambito dei lavori per l’Expo 2015. Ad accompagnarmi è stata Viviana, una signora dal sorriso dolce e dallo sguardo forte e intelligente. Un angelo silenzioso, che da 2 anni segue queste persone, diventandone punto di riferimento, a tal punto che molti la considerano “una di famiglia”.
Entrando nelle loro case, chiacchierando con loro, ho sentito ancora una volta il profumo della dignità, della vita fatta di priorità reali, di un rispetto che va oltre l’esperienza di ciascuno di loro, gli errori che hanno potuto commettere in passato, le resistenze culturali. Ho sentito padri che respiravano l’orgoglio di avere dei figli ben educati che leggono e scrivono in italiano. Ho ascoltato donne e uomini che, senza mai una parola offensiva, difendevano il diritto di non essere cacciati via e buttati per strada, senza una soluzione alternativa. La preoccupazione per i figli, per il loro futuro mi ha riempito di vita, mi ha fatto sentire più vicino a loro che a tante persone che incontro ogni giorno in questa città. Un sentimento che ho conosciuto tante volte negli anni.
Non riesco a togliermi dalla mente quei bambini, così dolci, alcuni sorridenti, altri curiosi nell’accogliere e conoscere questo estraneo catapultato in casa loro in una piovosa e buia domenica invernale, per parlare con i loro genitori, chiacchierare su quello che si aspettano dal Comune di Milano, a beve li incontrerà per proporre una soluzione di cui ancora non si conoscono i criteri e il contenuto. Gli occhi dei bambini, l’educazione nel porgermi una sedia, nel presentarsi, salutarmi, offrirmi dell’acqua o del caffè, sono il valico di confine di ogni violazione della dignità e del diritto. Nemmeno l’Expo e le sue esigenze di espansione, di progresso e potenziamento infrastrutturale, possono passare sopra la dignità di questa gente e il diritto dei loro figli a non finire in mezzo ad una strada. Se Milano non è solo una città di modaioli, viveur, individui ipertecnologici, indifferenti, ma anche un luogo di accoglienza, diritti, avanguardie culturali e inclusione, il Comune ha l’obbligo di intervenire a tutela dei 350 abitanti del campo.
Al diavolo le logiche elettorali, le paure di strumentalizzazioni, i possibili scontri con la Regione: qui c’è da mettere in campo la coerenza con le enunciazioni e le prese di posizione a favore dei diritti, degli ultimi, di quella popolazione che vive ai margini dei lustrini della città, cercando di sopravvivere in qualche modo, per mandare avanti i figli, per offrire a loro un futuro migliore e maggiori opportunità di inserimento in un mondo chiuso e severo, incrostato da stereotipi, etichette melmose, mistificazioni e indifferenza. Perché solo salvando la speranza e i diritti si può salvare il futuro di questa umanità e riportarla per strada, tra le buche di una via e la terra di cortili dove, dopo lo studio, si gioca ancora insieme e ci si stringe la mano. A testa alta e guardandosi negli occhi.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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