Aveva solo 23 anni e un coraggio tutto femminile, una forza esemplare attraverso cui difendeva i propri sogni e le proprie speranze. Amava cantare, emozionarsi ed emozionare con la sua voce, con il suo talento. Adesso ci sono solo il silenzio e il sangue di un assassinio di cui in pochi si sono accorti, forse perché è uno dei tanti che ogni giorno macchia le strade e le mura domestiche di un mondo in cui essere donna significa lottare il doppio per poter vivere, per poter gustare il sapore della libertà, di un’esistenza tranquilla, dentro la quale scegliere il proprio percorso, la propria direzione. Ghazala Javed era una delle cantanti pashtun più famose in Pakistan, un giovane talento, una voce aggraziata su un volto gentile e dolce. Stava uscendo da un salone di bellezza, a Peshawar, quando quattro sicari, a bordo di due moto, hanno sparato sei colpi di pistola uccidendola e uccidendo anche il padre che l’accompagnava.
Un’esecuzione in piena regola. Una punizione per la sua ostinazione a non piegarsi ad una mentalità violenta e autoritaria. Ghazala era da tempo minacciata per via del suo amore per la musica e per il canto, vietati dai talebani, che controllano la valle dello Swat, al confine con l’Afghanistan, nel quale si trova il villaggio di Bannr, da cui la cantante era andata via, insieme alla famiglia, proprio per sottrarsi alle pressioni. Si era trasferita a Peshawar, nella regione del Khyber, passo montuoso che collega il Pakistan nord-occidentale alla nazione afgana. In poco tempo era diventata la voce pashtun più celebre della regione e continuava a cantare nonostante le minacce. Rivendicava la sua libertà ed autonomia di donna, di essere umano, di artista. Anche nella vita privata.
Dopo essersi sposata, infatti, aveva interrotto il proprio matrimonio dopo aver scoperto che il marito aveva anche un’altra donna e dopo aver respinto le pressioni dei suoceri, contrari alla sua carriera musicale. Insomma, Ghazala non voleva cedere alle catene del maschilismo e della violenza. E ha pagato con la vita. I talebani o un commando inviato dall’ex marito? Le indagini sono ancora in corso, ma di sicuro questa giovane donna rischia di essere uccisa una seconda volta da tutti noi, perché il silenzio su storie come queste è il peccato più grave che possiamo commettere. Non si tratta di offrire il nostro dolore o la nostra pietà, ma di guardarci dentro, tutti, senza pudore, senza facili deresponsabilizzazioni. Soprattutto evitando di affibbiare questa violenza a contesti lontani o “meno sviluppati”, perché non è così.
Talebani ce ne sono a milioni in tutto il mondo, compresa l’Italia. Anzi, in Italia c’è una concentrazione elevata di talebani. Non solo nelle istituzioni, ma anche nei posti di lavoro, negli uffici e soprattutto nelle case, tra le mura domestiche, dove ogni giorno si compiono orrori, violenze indicibili su donne e bambine, massacri, suicidi apparentemente senza motivazioni precise. Uomini dalla moralità insospettabile, uomini dai sorrisi bonari, cravatta in ordine e dopobarba fresco, nascondono mani da orco e occhi da assassino. Tanti, tantissimi, una quantità che non conosceremo mai realmente, perché il numero si può riferire solo alle denunce giunte alle forze dell’ordine e alle autorità giudiziarie o a quelle raccolte dalle associazioni a tutela delle vittime, mentre nulla si sa del numero di violenze che rimangono non denunciate, silenziose, nascoste nel dolore e nel tormento di migliaia e migliaia di donne.
Violenze fisiche e violenze psicologiche, discriminazioni continue ed una legislazione che non aiuta, non tutela abbastanza, non comprende abbastanza. Misure insufficienti e processi lunghissimi che diventano incubi e che spesso si concludono con un nulla di fatto. Provare di aver subito una violenza non è facile, così come è quasi impossibile per chi ha subito in età infantile o adolescenziale e, solo dopo anni, trova la volontà e il coraggio di denunciare, ricorrere alla legge per avere giustizia. Le discusse sentenze sulla violenza sessuale, prodotte negli anni dalla Cassazione, la legge sullo stalking approvata tardivamente e di lenta applicazione, lo squilibrio eccessivo tra il necessario garantismo per l’accusato e l’altrettanto necessaria tutela della vittima determinano un deterrente pericoloso alla denuncia.
D’altra parte, non è un caso che il nostro sia un Paese in cui, ancora oggi, a livello istituzionale si mette in discussione la legge 194 sull’interruzione di gravidanza. Un Paese profondamente maschilista in cui il dibattito rimane imprigionato nello stagno di misure umilianti come le “quote rosa”, quasi che la questione del rispetto della donna sia un fatto burocratico, una sorta di concessione, quando invece il problema vero è che l’Italia deve cambiare culturalmente, iniziando dall’educazione. Bisogna educare gli uomini ad essere più femminili, a non aver paura della femminilità, a respirare la bellezza di uno scambio reciproco fatto di rispetto e di condivisione.
E bisogna educare anche molte donne, ad avere consapevolezza di sé, a non accettare modelli precostituiti, pieni di scorie maschiliste, anacronistiche e autoritarie, a cercare il sostegno e la collaborazione di quegli uomini che sono dalla loro parte, che ne condividono le esigenze e le idee di uguaglianza. Perché soltanto insieme, uniti, si può impartire a questa nazione, alle istituzioni, a chi fa le leggi e ai cittadini una lezione di democrazia, di giustizia e, soprattutto, di umanità.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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