23 luglio 2011. L′estate è già inoltrata. Molta gente si trova al mare, ma c′è chi lavora ancora e chi il mare non lo vedrà nemmeno. In questo caldissimo periodo dell′anno, e in occasione di quest′ultimo numero che chiude un′altra stagione del nostro giornale (vi diamo appuntamento a settembre), parlare di criminalità organizzata può sembrare forse una ripetizione, un continuo susseguirsi di frasi e concetti già noti e più volte ribaditi. Purtroppo, però, parlare di questo male che ci uccide e che uccide un Paese intero risulta, ancora oggi, una prerogativa dell′informazione libera, un assoluto dovere per chi, amante di questo mestiere e della verità che più volte ci viene nascosta, sceglie di stabilire una sorta di patto con il lettore, oltre che, ovviamente, con se stesso e con la propria dignità.
Scrivere liberamente, scrivere su ciò che non va, rischiando anche di infastidire qualcuno, non è altro che una delle innumerevoli sfumature di cui è composta la libertà, concetto più volte confuso e ignorato nella storia, ma che è alla base di una società democratica e della democrazia in generale. Inoltre, scrivere allo scopo di informare chi legge assume un′importanza enorme: basti pensare ai testi scolastici, che permettono di educare milioni di persone. Allo stesso modo, un articolo giornalistico ci rende partecipi della verità, della vita e dei luoghi con i quali non possiamo stabilire un contatto diretto (per motivi vari), ma che, in un modo o nell′altro, giungono nelle nostre case, nei nostri computer, arricchendo non solo la conoscenza di ogni individuo, ma formando ed educando un′ampio numero di gente. Eppure, si sa, nel nostro Paese non mancano le contraddizioni (a volte davvero incredibili).
In questo caso, nella nostra cara Italia, nonostante non si faccia altro che promuovere azioni democratiche da ogni parte politica, ribadendo concetti in cui la parola “democrazia” equivale a qualcosa da salvare o da tenere sempre in considerazione, la vita di un giornalista può assumere degli aspetti davvero tragici. Abbiamo più volte parlato delle numerose minacce che diversi cronisti hanno subito in ogni regione italiana. Questa volta, però, l′attenzione si sposta su due eccellenti croniste campane, Tina Palomba e Marilù Musto, rispettivamente giornalista del Corriere di Caserta e corrispondente del quotidiano Il Mattino, minacciate dal clan dei casalesi. Proprio un mese fa un attentato ha colpito la giornalista del quotidiano casertano a cui è stata bruciata la propria auto posteggiata nei pressi della sua abitazione, a San Prisco, un piccolo paese vicino a Santa Maria Capua Vetere, nel casertano.
Sul posto, inoltre, è stata ritrovata una copia del Corriere risalente al 17 aprile che, secondo gli inquirenti, starebbe ad indicare il “dispiacere” espresso dal boss per qualche articolo scomodo. Ma per Tina Palomba il rapporto di scontro con la camorra non è nuovo: già da due anni e mezzo, infatti, vive con una scorta che la sorveglia nelle ore notturne. Secondo la stessa giornalista, “dare alle fiamme la mia auto alle 23.30 è stato un atto plateale scelto per lanciare un messaggio”; d′altronde, come ha poi aggiunto, “abito in un posto affollato”. Insomma, il messaggio intimidatorio non è solo rivolto alla giornalista, bensì assume l′aspetto di un′ulteriore dimostrazione di potenza e superiorità espresso nei confronti dell′intera comunità che deve accettare tale situazione in un triste silenzio omertoso. Per Marilù Musto, “quel che è accaduto a me e a Tina Palomba può accadere a chiunque lavori scrupolosamente.
Capita che ti si avvicini qualcuno e ti dica di non scrivere cose che possano dispiacere a qualcuno”. E questo lo sa bene. Nel 2008, infatti, un “portavoce” del super boss Michele Zagaria (ciò lo confermerà più tardi la magistratura) avvicinò i genitori della giornalista chiedendo, per conto dello stesso “Michele”, che non scrivesse più. Secondo la Musto, l′articolo che scatenò una reazione simile fu quello in cui si parlava “di un bar che era stato aperto accanto ad un posto di polizia da alcuni parenti del boss di Zagaria”. Un affronto che non venne accettato dal boss, il quale espresse immediatamente il proprio dissenso. Nonostante le innumerevoli difficoltà a cui questi “eroi della carta” vanno incontro, Tina e Marilù non sono sole.
Oltre ai numerosi colleghi, anch′essi più volte minacciati dalla camorra, lo Stato ed ogni associazione di categoria hanno espresso la propria solidarietà e la propria vicinanza nei confronti di queste donne così coraggiose e così innamorate del proprio lavoro. Un lavoro che diventa (e che è) passione, amore per la verità e l′informazione. Certo, le parole servono davvero a poco. Ma a volte, un segno di sincera e reale vicinanza, anche se espresso in semplici fogli di carta, può mantenere vivi e forti quegli stimoli e quelle convinzioni, che in casi del genere tendono a scomparire pericolosamente. L′importante, dunque, è non lasciarle mai sole.
Giovambattista Dato -ilmegafono.org
Commenti recenti