Lo slittamento del voto al Senato sulla riforma Gelmini è il frutto della lunga lotta che, da più di un anno, il mondo universitario, compatto e deciso, conduce per salvare l’università da un provvedimento considerato distruttivo. Una prima vittoria della democrazia, anche se ancora la strada è lunga e non sono da escludersi colpi di scena. I protagonisti del movimento a difesa dell’università questo lo sanno bene, tanto che, nemmeno nello sconsolante giorno dell’approvazione del ddl alla Camera, si sono fermati, annunciando anzi di voler continuare la battaglia. Ce lo avevano già detto una settimana fa, quando li abbiamo incontrati sui tetti di Palazzo Nuovo, sede dell’Università degli studi di Torino, in una giornata fredda ma soleggiata, dopo una notte passata in tenda per dare un segnale forte, per urlare al governo e al parlamento di fermarsi, di non proseguire sulla strada tracciata dal ministro dell’Istruzione, Maristella Gelmini.
Un gruppo numeroso, un insieme di volti stanchi ma arrabbiati, stufi di essere ignorati da chi decide per loro e sul loro futuro, senza tenerne in considerazione le opinioni, le esigenze, le proposte alternative. “Siamo saliti sul tetto in tutta Italia per un ultimo grido di dolore di fronte a questa riforma, sperando che non passi. Ma anche se passasse noi continueremo a protestare. Questa riforma distrugge l’università pubblica che è un bene collettivo. L’università italiana è malata, ma il governo per curarla sta utilizzando l’eutanasia”. Queste le parole che ci aveva detto Bruno Maida, ricercatore di storia contemporanea presso la facoltà di Scienze della Formazione di Torino e coordinatore della Rete 29 aprile, che raccoglie i ricercatori mobilitati.
Con tono fermo ci aveva spiegato il suo punto di vista sulla direzione da seguire, che è diametralmente opposta rispetto alla riforma: “Ci vuole una maggiore democratizzazione dell’università, tutti devono partecipare alle decisioni. E soprattutto ci vogliono più finanziamenti. Al momento l’università italiana è sotto finanziata, soprattutto per quel che riguarda la ricerca. Non si può fare ricerca senza soldi. Poi c’è la questione del diritto allo studio, che dovrebbe essere tutelato come prevede l’art.34 della Costituzione. E servono strumenti, aule, strutture. Per fare questo bisogna riconoscere il lavoro di quei ricercatori che da anni fanno il 50% dei corsi, pur non dovendolo fare per legge, senza prendere una lira in più”.
Il problema più grave, dunque, riguarda la carenza di fondi, cioè il fatto che questa riforma non investe un euro in più su università e ricerca, ma anzi taglia, ridimensiona: “Nella legge – notava Maida – per 16 volte viene ripetuta la frase ‘senza oneri aggiuntivi per lo Stato’. Qualche giorno fa, però, abbiamo visto che è stata approvata una legge che dà 250 milioni di euro alle scuole private”. Sul tetto di Palazzo Nuovo a protestare c’era anche Tiziana Nazio, ricercatrice, che per difendere i propri diritti ha sfidato anche le vertigini. Ci ha parlato dei ricercatori precari, di una condizione dura che questa riforma peggiorerebbe ulteriormente: “Si introduce un ruolo di ricercatore a tempo determinato per un periodo di 6 anni (3+3) e, anche quando, in questi sei anni, uno acquisisca l’abilitazione nazionale per diventare professore associato, la possibilità di essere assunto all’università è subordinata a vincoli di bilancio.
Quindi ciò pregiudica le carriere di chi è stato molto produttivo nel corso dei 6 anni. Si aggiunge così altro precariato a quello già esistente. E soprattutto si scoraggiano i giovani”. Insieme ai ricercatori, c’erano anche gli studenti. Andrea Aimar, rappresentante studentesco all’interno dell’Edisu (Ente regionale per il diritto allo studio) dell’Università di Torino, ci ha illustrato quali sono i punti a suo avviso più controversi della riforma Gelmini: “Innanzitutto si tolgono finanziamenti all’università pubblica, poi si punta a mutare la gestione interna in senso antidemocratico, con troppo potere dato ai consigli di amministrazione formati, almeno per il 40%, da soggetti esterni all’università. Inoltre, si rende ancora più precaria la ricerca, facendo un ragionamento molto retorico sulla meritocrazia.
A tal proposito noi pensiamo che sia giusto premiare i più capaci, però il problema è che bisogna poi riuscire a garantire che, a questa gara tra migliori, tutti possano partecipare. Parli tanto di meritocrazia e mentre ci togli i soldi del diritto allo studio e ti inventi il meccanismo dei prestiti fiduciari: insomma, cominci a creare barriere tra chi può e chi non può accedere. E allora c’è qualcosa che non va”. Non solo protesta, ma anche proposta: “Siamo consapevoli – ha affermato Aimar – dei problemi dell’università italiana. Noi non siamo difensori dello status quo, come qualcuno dice.
Vogliamo che l’università venga cambiata, ma con una riforma non elitaria come quella della Gelmini. Per questo, da mesi stiamo lavorando ad un progetto alternativo, insieme a docenti e ricercatori, per approntare una soluzione più giusta, secondo noi, ai problemi che ci sono. È un progetto nazionale, di cui Torino si è fatta punta avanzata. Io faccio parte di un’organizzazione che si chiama ‘Studenti indipendenti’ e che a livello nazionale si chiama ‘Link’. Sui siti di queste due organizzazioni potete trovare tutti i punti di questo progetto alternativo di riforma”.
Massimiliano Perna – Federica Formica –ilmegafono.org
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