Rosarno è solo un punto nella storia di questo Paese. Un puntino lontano, per molti, una macchia appena visibile sul lenzuolo sporco di una coscienza che non c’è più. O forse non c’è mai stata. A Rosarno si muore ancora. Si muore per sfruttamento, per emarginazione, per esclusione. Si muore da invisibili, da freddi numeri rinchiusi dentro un ghetto, ai margini di una società che consuma e sfrutta, che brama braccia utili da far muovere senza sosta, tra sudore e fatica, per una paga misera e senza alcuna tutela. Braccia che poi devono sparire nel buio della notte, restare fuori dalla vita di città che, come Rosarno, alla dignità degli ultimi preferiscono il fiato marcio dei padroni. Padroni che, peraltro, spesso, si chiamano boss.

Non è cambiato nulla a Rosarno da quel 2010 che si colorò di rivolta, di risposta stanca e rabbiosa alla violenza e all’intolleranza. Una rivolta che svelò al Paese intero la verità, quella che tutti sapevano ma fingevano di non sapere. La politica, il governo dell’epoca, con in testa l’allora ministro dell’Interno, Roberto Maroni, risposero alla loro maniera: abbattimento della Rognetta, la ex fabbrica divenuta dormitorio, e nessuna soluzione per garantire dignità ai braccianti che da sempre si riversano nell’area per la raccolta stagionale, soprattutto di agrumi. Nessun intervento, né a Rosarno né nelle altre aree di caporalato distribuite in tutta la penisola, per far cessare quella che si definisce emergenza e per trasformarla in riconoscimento di diritti, accoglienza, rispetto dei lavoratori, lotta allo sfruttamento.

Scapparono in tanti da Rosarno in quei giorni. Lasciarono quell’inferno e raccontarono altrove tutte le cose subite da anni. I pestaggi, le rapine, gli agguati, le minacce. Ci volle un’inchiesta della procura di Palmi, con l’allora procuratore Creazzo, per punire finalmente, per la prima volta, non solo i caporali, ma anche e soprattutto i proprietari terrieri e gli imprenditori. E molti erano cognomi noti, cognomi che incutevano timore e rispetto alla cittadinanza. Poi più nulla. Rosarno è precipitata nel silenzio, nell’oblio della politica e dei mass media nazionali.

Non fa più notizia, non interessa più. Non ha più senso parlarne, raccontare di sprechi di denaro per soluzioni tampone a quella che non è affatto emergenza, ossia fatto straordinario e imprevedibile, ma evento costante che si ripete da anni. A Rosarno come altrove. La legge sul caporalato approvata nel 2016 dal governo Renzi è solo uno strumento minimo che non ha alcuna efficacia nella lotta a un fenomeno, il caporalato, che è sistemico e ne richiama altri, riportandoci a un clima di schiavitù e di fallimento civile che la politica e il degrado culturale e umano di questo Paese stanno fomentando.

Rosarno è uno degli emblemi di una nazione che non è affatto una Repubblica fondata sul lavoro e sui bellissimi principi costituzionali, ma un luogo dove il lavoro viene umiliato e i diritti umani, quelli più essenziali, violati senza alcuna conseguenza o pena. Così accade che si possa ancora morire di lavoro, di emarginazione o di intolleranza.

A Rosarno si muore ancora. Come è accaduto a Becky Moses, giovane cittadina nigeriana, vittima dell’esclusione e della burocrazia. Un destino infame di cui responsabili sono le istituzioni, le leggi che mettono l’umanità e i diritti fondamentali sotto il calcio pesante di procedure ottuse, dinieghi, ritardi, dispetti e comportamenti spesso non legali attuati da alcuni uffici istituzionali. Becky è morta tra le fiamme di un ghetto, tra l’indifferenza che brucia e incendia vite e dignità. A Rosarno, in Italia, in Europa. Cosa diranno adesso i responsabili? Nulla. Non ce ne saranno. Sarà una morte derubricata a incidente, a fatalità, ma in realtà è un omicidio di Stato. Becky è vittima di questa Italia.

I carnefici faranno la loro strada, la loro vita, le loro carriere. Non gliene importa nulla del sorriso di Becky e della voglia di vivere, di andare avanti, di prendere le briciole che questo mondo offre a chi non ha la fortuna di nascere sotto un tetto sicuro. Quanti morti dovranno esserci ancora per avere un sistema di accoglienza degno di questo nome? Se lo chiedono gli amici di Sos Rosarno, che da anni lottano per i diritti dei migranti e per fornire alternative economiche e imprenditoriali sane e legali. Quanti morti dovranno esserci affinché la si smetta di pensare al lavoro stagionale come a un’emergenza e si cominci invece a collegare lavoro a diritti universali, a contratti e a soluzioni abitative diverse da tendopoli a capienza ridotta o a baraccopoli e ghetti di fortuna, dove una scintilla può tramutarsi in strage?

Domande che ci poniamo da anni. Da quasi vent’anni. E che oggi bruciano dentro al dolore e alla rabbia di questa ennesima morte, nella speranza di ottenere finalmente una risposta. Una risposta umana, in mezzo a questo tempo di silenzi indifferenti o di parole crudeli. Speranza vana, se si pensa alla linea che la politica nel suo insieme segue in tema di diritti e immigrazione. Rosarno è solo una scintilla. Ma si spegnerà e tornerà ad essere un puntino lontano e invisibile. Rimarrà ghetto, dove duemila esseri umani cercano ogni giorno un po’ di lavoro per andare avanti. Aiutati da pochi e osteggiati da molti. Resisteranno, fino a quando sarà possibile sopportare.

Fino a quando, tra il cellophane e le lamiere degli alloggi di fortuna, ci sarà un Dio a cui affidare la propria sorte e la speranza che domani sorga il sole nuovamente a scaldare l’anima e la pelle e non ci siano più fiamme a spezzare la notte, a bruciare la vita, a soffocare i polmoni e le voci.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org