La sconfitta militare dello Stato islamico in Iraq, proclamata lo scorso 9 dicembre dal premier iracheno Haider al Abadi, chiude una delle pagine più terribili della storia del paese arabo che dagli anni Ottanta ad oggi ha conosciuto solo brevissimi periodi di pace. La ricostruzione delle città e delle infrastrutture, il ritorno degli sfollati e dei rifugiati, le elezioni del prossimo 12 maggio 2018 e la soluzione della contesa con la regione autonoma del Kurdistan iracheno sono solo alcune delle sfide che attendono l’Iraq nei prossimi mesi e anni. La guerra allo Stato islamico ha inflitto un nuovo pesante colpo all’economia irachena, già in difficoltà prima dell’avanzata del gruppo jihadista.

Secondo le stime del governo di Baghdad, infatti, per la ricostruzione del paese ora saranno necessari almeno 100 miliardi di dollari e l’Iraq non potrà fare a meno di cospicue donazioni internazionali. Solo attraverso la ricostruzione delle zone residenziali distrutte e delle principali infrastrutture e un lungo processo di “riconciliazione” interna,  la popolazione irachena potrà tornare alla normalità, dopo anni di occupazione imposta con la minaccia del terrore dallo Stato islamico del sedicente califfo Abu Bakr al Baghdadi.

In città come Mosul, autoproclamata capitale dello Stato islamico dal 2014 al 2017, ci sono centinaia di bambini cresciuti sotto il terrore e addestrati ad uccidere che dovranno essere rieducati a vivere la propria infanzia. Ci sono anche migliaia di persone che devono superare il trauma della guerra e “dimenticare” o “elaborare” le atrocità cui hanno assistito.

La pacificazione interna dovrà partire dal disarmo delle milizie tribali, moltiplicatesi negli ultimi tre anni come forze di interposizione allo Stato islamico. Attualmente l’unico gruppo popolare armato riconosciuto dal governo sono le Unità di mobilitazione popolare (Pmu o Hashd al Shaabi, a maggioranza sciita), alleate dell’esercito e ormai ufficialmente parte degli apparati di sicurezza nazionali. Queste ultime, con l’appoggio dei pasdaran iraniani (la forza dei guardiani della rivoluzione islamica), hanno contribuito in modo determinante alla guerra contro i jihadisti di al Baghdadi. Tutte le altre milizie tribali, tra cui quelle vicine al movimento guidato dal religioso sciita Moqtada al Sadr (le Brigate della pace), dovranno consegnare le armi come chiesto da Abadi pubblicamente.

Al Sadr è un uomo piuttosto influente in Iraq e ha guidato nei mesi scorsi un forte movimento di protesta contro il governo, che chiede di mettere fine alla logica di spartizione settaria e confessionale delle cariche politiche e di adottare rigide misure anti-corruzione.

Nelle istituzioni pubbliche irachene, infatti, la piaga della corruzione è dilagante e più volte nei mesi scorsi il primo ministro Abadi ha cercato di sopire il malessere popolare promettendo riforme drastiche, tra cui  l’abolizione delle tre vicepresidenze della Repubblica e delle tre vicepresidenze del Consiglio dei Ministri (spartite su basi etniche e confessionali), la riduzione delle scorte dei funzionari governativi, la razionalizzazione dei ministeri e l’attivazione di un Consiglio nazionale anti-corruzione che dovrà indagare sull’impiego dei fondi pubblici.

Nel frattempo, le entrate petrolifere continuano a trainare l’economia irachena provata, negli anni, da guerre, tensioni interreligiose e sanzioni internazionali. Nel 2016 c’è stata una forte ripresa dell’attività economica grazie ad un aumento dei proventi petroliferi e del prezzo del greggio sui mercati internazionali. Ora il paese deve rilanciare il settore dell’agricoltura, quello manifatturiero e quello edilizio, per far fronte ad una disoccupazione che si attesta intorno al 12 per cento e alla presenza di nuove preoccupanti sacche di povertà.

La minaccia di un’eventuale indipendenza della regione del Kurdistan sembra per ora scemata, con le dimissioni di Massoud Barzani, storico presidente dell’entità autonoma che aveva puntato tutta la sua carriera politica sul referendum dello scorso 25 settembre. Le divisioni interne all’establishment curdo hanno impedito, infatti, almeno per ora, che il risultato della consultazione popolare, ampiamente a favore della separazione da Baghdad, potesse concretizzarsi.

G.L. -ilmegafono.org