Ore 10 del mattino. Un uomo posteggia la propria macchina nei pressi di un bar. Entra, scoppia una rissa. Qualche secondo ed un colpo di pistola lo colpisce alle spalle, ferendolo gravemente. L’uomo scappa, in cerca di soccorsi, ma altri tre proiettili lo colpiscono al torace, uccidendolo. Lo scenario che si presenta ricorda uno dei tanti classici film western o, per uscire dalla finzione cinematografica, la triste realtà di un luogo, l’Italia, in cui la malavita regna quasi incontrastata. Nei nostri occhi è ancora fresca l’immagine della studentessa ferita da un proiettile vagante nei pressi della facoltà di Lingue, a Catania. Purtroppo, però, quanto accaduto domenica scorsa non ha niente a che vedere con tutto ciò. Questa volta siamo a Roma, la Capitale, che fa da sfondo ad un omicidio di stampo camorristico. Un regolamento di conti, secondo gli inquirenti, che all’origine potrebbe svelare diversi moventi, tra cui un’estorsione andata male o un tentativo della vittima di “allargare” il giro del traffico di droga, che avrebbe creato così un’accesa concorrenza. Per il crimine organizzato, si sa, questo è inaccettabile. Così, proprio domenica scorsa, Carmine Gallo, pregiudicato 52enne di Torre Annunziata (Na), è stato ucciso con quattro colpi di pistola, dopo uno scontro verbale avuto con due persone.

L’uomo, che “vantava” un curriculum colmo di precedenti penali (omicidi, traffico di droga, prostituzione), era molto conosciuto negli ambienti della criminalità organizzata, ma da anni, dopo un periodo in cui aveva deciso di collaborare con la giustizia, viveva nel quartiere Aurelio, alla periferia di Roma, nel quale era solito fare il venditore ambulante di magliette nei mercati rionali. Secondo gli investigatori della Squadra Mobile, proprio in quella zona della città capitolina si sarebbero stabiliti da tempo diversi clan mafiosi siciliani e campani, particolarmente propensi allo spaccio di droga. E proprio negli ultimi giorni questa intuizione ha portato a dei risultati forse inaspettati per le stesse forze dell’ordine. All’alba di mercoledì scorso, infatti, un uomo si è presentato negli uffici della squadra mobile romana: si chiama Eduardo Miceli, 59enne, ed è un imprenditore siciliano. Secondo una recente ricostruzione, l’uomo avrebbe deciso di costituirsi perché braccato dalle forze dell’ordine che negli ultimi giorni stavano seguendo attentamente le sue tracce. A tradirlo, probabilmente, il cellulare intestato al figlio perso durante lo scontro ed il furgone sequestrato con il quale, proprio la scorsa domenica, si sarebbe recato nel luogo del delitto.

All’interno del mezzo, infatti, gli uomini della scientifica hanno trovato alcune tracce di sangue dovute ad una rissa e ciò confermerebbe perfettamente la ricostruzione fatta dagli inquirenti. Miceli, che non ha ancora rilasciato dichiarazioni, ha alle spalle piccoli precedenti penali per reati contro il patrimonio ed è il proprietario della torrefazione “Haiti”, con sede proprio nel quartiere romano. Tutto ciò, comunque, smonterebbe la prima ipotesi secondo la quale l’omicidio avrebbe alla base uno sfondo camorristico, tendendo invece ad una regolazione di conti “personale”, nella quale i due uomini sarebbero stati coinvolti per cause tuttora incerte. Naturalmente, ciò non cancella affatto quanto è avvenuto. E non cancella, soprattutto, una realtà che nel corso degli anni si è rafforzata, è cresciuta e si è messa in risalto agli occhi dell’opinione pubblica (specialmente quella dei cittadini romani, piuttosto preoccupati): la mafia e soprattutto la camorra esistono a Roma, così come in tutto il Lazio.

Sono attive, non soffrono la lontananza dalla “terra madre”; al contrario, sfruttano abilmente la collocazione geografica della città per il reinvestimento del denaro accumulato grazie alle attività illecite e per la mediazione tra organizzazioni italiane e straniere interessate soprattutto al traffico internazionale di droga. Roma, dunque, sarebbe diventata un centro di incontro strategico per la criminalità italiana e per quelle straniere. Tutto ciò è confermato dal comandante provinciale dei carabinieri Vittorio Tomasone, il quale ha affermato come vi siano dei modi operandi della mafia diversi da quelli che si hanno nel Meridione, ma che, dopo tutto, “nelle province di Latina e Frosinone la presenza camorristica è molto maggiore e più penetrante” rispetto alla Capitale, e “dopo l’operazione Spartacus abbiamo assistito ad un ulteriore passaggio verso l’area pontina di pregiudicati e affiliati ai clan casertani e napoletani”.

Un caso eclatante è quello di Fondi, dove “l’interesse dei clan sul mercato ortofrutticolo era per la camorra assolutamente prioritario”. Insomma, nonostante quest’ultimo caso non sembri rappresentare ciò che inizialmente sembrava un classico omicidio di camorra, è bene non dimenticare che la stessa camorra è comunque presente e attiva nel territorio del basso Lazio e in quello romano, dove agisce e prolifera quasi indisturbata. Purtroppo, una buona parte degli italiani è ancora convinta che la mafia sia semplicemente un fattore meridionale, circoscritto, e che non abbia niente a che vedere con il resto d’Italia. I media, le istituzioni dovrebbero piuttosto diffondere un concetto diverso, più reale, che spieghi, una volta per tutte, che la mafia non è solo un fattore locale, ma un male che colpisce la nazione intera e che già da tempo si è espanso in tutto il mondo. Ed a tale livello che andrebbe estesa la lotta.

Giovambattista Dato –ilmegafono.org