Lacrime e sangue. Sacrificio. Lacrime liquide di un ministro al suo esordio, sangue che sgorga dalle vene di un Paese in cui al sacrificio sono chiamati sempre gli stessi, cioè quelli che la crisi la vivono da 20 anni, senza sosta e troppo spesso in silenzio. Ecco, mai come adesso il silenzio sarebbe molto più opportuno di tante parole sprecate, tante idiozie vomitate da bocche che trovano sempre qualcosa da aggiungere al vizio dorato delle loro esistenze. Parlare di cattivo gusto sarebbe troppo gentile e riduttivo. No, questa volta è ora di fare un po’ di chiarezza e di dire che Monti, la Cancellieri e la Fornero hanno dato evidente dimostrazione di vivere in un altro Paese e di lasciarsi andare a toni che puzzano di qualunquismo. A pensar male potremmo supporre che le dichiarazioni rilasciate dai tre siano una sorta di amo da gettare al popolo, per fomentare l’istinto dei più, quelli che pensano che i giovani siano viziati, ben abituati, fannulloni, bamboccioni, e che, allo stesso modo, gli statali e tutti quelli con il posto fisso siano parassiti, gente che lavora poco, raccomandati e avvezzi all’abuso di pause caffè.

“Il posto fisso è monotono”, dice Monti, “bisogna abituarsi a cambiar lavoro e a viaggiare all’estero”, continua. “Siamo fermi al posto fisso nella stessa città di mamma e papà, ma il mondo sta cambiando”, ribadisce la Cancellieri. “Il posto fisso è un’illusione”, aggiunge la Fornero. Dinnanzi a queste parole, in molti, che vivono in un mondo di precarietà, non si sentono offesi, anzi danno ragione a questi ministri, perché si fidano, in quanto, al cospetto dei volti mostruosi e rozzi dei loro predecessori, appaiono rassicuranti e amichevoli, votati al bene e impegnati nell’eroica impresa di salvare l’Italia. Un’Italia che deve cambiare, dicono, deve abituarsi alla modernità, fatta di spostamenti, di lavoro all’estero, di vite vissute lontano dalla propria famiglia o città natale. I giovani, soprattutto, devono smetterla con questa idea del lavoro fisso, perché non ci sono più le condizioni. E poi, cambiare lavoro è più stimolante, rende la vita più avventurosa.

Un disco che viene ripetuto ossessivamente, ogni giorno, come fosse un ritornello da far entrare in fretta nella testa della gente, per creare quel consenso che, in un Paese dove il servilismo non è solo materiale e comportamentale, ma anche e soprattutto psicologico, è utile a giustificare provvedimenti duri che puntano a spazzare via le poche tutele rimaste a difesa dei lavoratori. Non è un caso che questa abile strategia di comunicazione, probabilmente suggerita da qualcuno politicamente più esperto di Monti e dei suoi, venga esasperata proprio alla vigilia di una annunciata riforma del lavoro in cui la soluzione di tutti i problemi sembra essere diventata l’abolizione o lo stravolgimento dell’articolo 18. Come se oggi per le imprese fosse un problema licenziare, come se la mancata crescita fosse dovuta a questo, nell’Italia del contratto a tempo indeterminato spesso consegnato insieme alla richiesta di dimissioni in bianco, l’Italia dei contratti a progetto o a termine di ogni tipo e forma, anche la più creativa, con cui ti possono mandare via con un soffio di vento.

Eppure, nel Paese dei furbi e degli sfruttatori, dei luoghi di lavoro senza sindacalizzazione, delle buste paga false, del lavoro nero, il primo ingrediente del governo è la soppressione dell’articolo 18 o il suo sostanziale indebolimento. Più potere alle imprese in cambio di cosa? Questo non si sa, perché di proposte ce ne sono almeno tre e tutte si appoggiano su due parole, “ammortizzatori sociali”, sul contenuto delle quali però nessuno approfondisce, chiarisce. D’altra parte, siamo in un’epoca in cui vanno molto di moda le sigle, parole brevi usate per coprire il vuoto del loro significato ottenendone ugualmente il riconoscimento. E la gente? Ci casca, come sempre. Perché Monti, con quella faccia un po’ così, un po’ da buon maestro, un po’ da anziano vicino di casa cortese e disponibile, non sembra capace di mentire e ti fa credere che alla fine se ti fidi di lui tutto andrà bene. Poco importa se a fare i sacrifici saranno sempre gli stessi e ancor meno se coloro che per 20 anni hanno speculato arricchendosi riceveranno, forse, un leggero solletico.

Perché siamo italiani e quando qualcosa di “meno peggio” (che è diverso dal concetto di meglio) sostituisce il peggio, siamo già tutti contenti, malgrado qualche lamentela, e pronti a sventolare la bandiera dei sostenitori. Siamo schiavi del terribile passato di petroniana ispirazione, siamo ancora scioccati dal Trimalcione che ci ha mostrato la sua rozza sala da pranzo, dietro cui si celava un patetico lupanare. Così, di fronte ad una accertata normalità, ad una sobrietà di modi e di stile, tutto ci sembra migliore e ci spinge ad accettare. Persino quando si tratta di parole che vengono da chi ha il privilegio di aver vissuto una vita da posto fisso e di averla tramandata ai propri eredi, ai quali evidentemente la monotonia piace e non dà fastidio. Ma davvero sono solo parole buttate lì, in maniera inopportuna ed ingenua? O forse gli italiani appaiono così facili da ammaestrare che si è scelto per bene, in modo studiato e artificioso, quale rete gettare nel mare della crisi per tirare dentro, a strascico, la definitiva condanna a morte dell’articolo 18? Ai posteri (di confindustria, della Cisl e della Uil) l’ardua sentenza.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org