L’inchiesta “Terra Rossa” della procura di Foggia (ne parliamo oggi sul Megafono), che ha colpito un proficuo sistema affaristico basato sul caporalato e sullo sfruttamento della manodopera agricola nel territorio garganico, rivela una realtà già conosciuta. Quella di moltissime aree rurali italiane (almeno 80), nelle quali lo spirito d’impresa è impastato di violenza, miseria, vessazione, emarginazione. Aree in cui caporali e imprenditori, faccendieri e contabili gestiscono la produzione in maniera illecita, lucrando per milioni di euro sulla pelle dei lavoratori, soprattutto stranieri. Una storia diffusa, nota da anni. Lavoratori privati dei loro diritti, i cui tentativi di ribellione sono spesso soffocati con la minaccia, il ricatto, la violenza. Schiavi, schiacciati da un meccanismo infernale azionato da più attori, posti a diversi livelli: i caporali, i padroni, le istituzioni, la politica.

Un meccanismo schiavista, figlio di responsabilità politiche annose, dell’incapacità di anteporre il diritto e l’umanità alla propaganda e all’ipocrisia. Contro questo sistema marcio, iniquo, illegale si è battuto per anni un uomo, un sindaco, quel Mimmo Lucano che alcuni magistrati, basandosi su indagini lacunose e piene di interpretazioni sconcertanti, hanno condannato alla stregua di un criminale. Per un reato che non ha commesso. Una pagina nera della giustizia italiana, nata dalla convergenza di interessi tra chi aveva bisogno di azionare le leve necessarie a distruggere un modello come Riace, che, al netto di errori innocenti e imperfezioni, rappresentava una alternativa valida e possibile al fallimento della politica nazionale ed europea in materia di accoglienza. Ma cosa c’entra Riace con l’inchiesta di Foggia sul caporalato e sullo sfruttamento dei braccianti? Il collegamento più diretto è nella iscrizione nel registro degli indagati di una tale Rosalba Livriero Bisceglia. Una donna che porta un cognome importante nel mondo dell’imprenditoria agricola garganica.

Sia chiaro: non sta a chi scrive puntare il dito prima che la magistratura appuri le responsabilità e prima che un accusato possa dimostrare la sua presunta innocenza. La giustizia farà il suo corso e valuterà le accuse di essere parte di un sistema di sfruttamento, di trattare direttamente con i caporali o di falsificare le buste paga. Quello che invece importa sottolineare è che l’indagine a carico di questa signora ha determinato le dimissioni del marito, un uomo potente, arrivato a comandare un importante ufficio ministeriale. Parliamo di Michele Di Bari, capo del Dipartimento per le libertà civili e per l’immigrazione del ministero dell’Interno, ossia l’ufficio chiamato a gestire tutto ciò che riguarda l’immigrazione, dagli sbarchi ai sistemi di accoglienza, fino ai progetti per l’integrazione e la legalità. Come ad esempio quello, mai partito ma già finanziato, per costruire la Cittadella dell’accoglienza a Borgo Mezzanone, proprio dove si trova la baraccopoli infernale in cui sopravvivono (perché di vita non si può parlare) i braccianti stranieri sfruttati anche, secondo l’accusa, dall’azienda della moglie di Di Bari.

Ma cosa c’entra Riace? Semplice. Di Bari è stato prefetto di Reggio Calabria dal 2016 al 2019, proprio negli anni in cui il sistema di accoglienza del comune guidato da Mimmo Lucano è stato colpito in maniera irreversibile. Arma principale usata per l’agguato a quel modello, ciò che è stato pilastro delle indagini a carico dell’ex sindaco, fu proprio la serie di ispezioni prefettizie disposte da Di Bari, dalle quali vennero fuori diverse relazioni. In particolare, una di queste, che dipinse un quadro spettrale di Riace, con conclusioni che suggerivano l’ipotesi di possibili responsabilità penali, mise in moto la Procura di Locri. Intanto Riace veniva pian piano smantellata, proprio dall’azione congiunta della Prefettura e del Viminale. Prima con Minniti e poi con Salvini, i due ministri che hanno fatto la guerra al modello che smentiva scandalosamente le loro idee di gestione e soluzione della questione migranti.

I soldi per i progetti di Riace vennero bloccati, in modo da mandare in default il sistema di accoglienza, di fatto iniziandone la demolizione “fisica” e mediatica, alla quale poi si è aggiunta la mano dura della procura di Locri. Non un ruolo marginale quello di Di Bari, tutt’altro. Al punto che, a maggio 2019, Matteo Salvini, all’epoca ministro dell’Interno del governo Conte I (quello giallo-verde con Lega e Cinque Stelle), lo chiama a dirigere il Dipartimento per le libertà civili e per l’immigrazione. Incarico confermato anche dai governi Conte II (quello giallo-rosso con PD e Cinque Stelle) e Draghi. Fino a pochi giorni fa, quando, a seguito dell’indagine a carico della moglie, ha scelto di dimettersi, togliendo dall’imbarazzo la ministra Lamorgese, nel frattempo finita sotto attacco dallo stesso Salvini, colpito da una improvvisa amnesia rispetto a chi ha piazzato Di Bari alla guida del Dipartimento. Un’amnesia poco credibile, se si pensa che Di Bari è il prefetto che ha disposto la demolizione della baraccopoli di San Ferdinando, a Rosarno, in Calabria. Anzi, come ricorda Lucano in una intervista a Il Manifesto, “quando Salvini si presentò con le ruspe c’era al suo fianco proprio Di Bari”.

Insomma, al di là delle eventuali responsabilità della moglie del prefetto, è molto imbarazzante che un familiare stretto di chi dovrebbe combattere lo sfruttamento e addirittura promuovere luoghi di legalità e accoglienza, sia accusato di essere parte di quel sistema di sfruttamento. Ed ancora una volta è inquietante notare come, attorno alla vicenda giudiziaria di Mimmo Lucano, si aggiungano altre anomalie a quelle già evidenti di una sentenza abnorme, emersa da un processo pieno di falle e nel quale nessuna verità alternativa o dubbio (sanciti anche dalle conclusioni del Riesame e della Cassazione) siano mai stati presi in considerazione.

Forse, laddove la giustizia non arriva, giunge il destino a suggerire la via per comprendere meglio ciò che accade in certi momenti e a riaccendere i riflettori su chi, probabilmente per far carriera, ha deciso di servire i potenti, senza il minimo scrupolo, schiacciando chi, con il suo esempio concreto, derideva i loro petti gonfi di propaganda e annichiliva le loro storie piene di nulla. Le dimissioni di Di Bari contano poco adesso. Se vuole davvero fare un servizio al Paese, ci dica la verità su Riace e, ad esempio, su quelle relazioni, compresa quella che dipingeva uno scenario positivo e virtuoso di Riace e che è stata nascosta in un cassetto a lungo. Troppo a lungo.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org