Patrick Zaki è libero. Non ancora assolto (da un reato che peraltro non ha commesso), non liberato dalla mano violenta della falsa giustizia egiziana. Ma libero. Finalmente fuori dal carcere, dal trattamento disumano che ha subito, dalle forme di tortura, da una prigionia ingiusta, criminale, stabilita da un regime che disprezza i giovani, soprattutto quelli che hanno opinioni dissonanti, che non si piegano. Un regime macchiato, tra l’altro, dal sangue ancora fresco di un altro ragazzo, Giulio Regeni, che ha avuto un destino ancor più drammatico, ucciso da forze militari e servizi egiziani, con la copertura del governo della nazione nordafricana. Patrick Zaki, per fortuna, non ha conosciuto la morte, ma ha vissuto due anni di incubo, due anni che nessuna giustizia gli restituirà mai. La notizia è arrivata, inattesa, martedì 7 dicembre, esattamente 22 mesi dopo l’arresto.

Una storia, la sua, che ha toccato il mondo e, in particolare, il nostro Paese, visto che Zaki studiava a Bologna e qui aveva e ha molti colleghi e amici. In tanti, da Bologna e da ogni città d’Italia, grazie anche all’impegno di Amnesty International, in tutti questi mesi hanno espresso vicinanza al ragazzo, chiedendo a gran voce alle autorità italiane ed europee di intervenire, di fare pressione sull’Egitto, di interrompere le relazioni commerciali fino a quando non si fosse proceduto a liberare dal carcere uno studente che ha solo espresso un’opinione attraverso un social network. Una pressione che non ha ottenuto a lungo il giusto impegno né da parte delle istituzioni europee né da quelle italiane, già apparse fortemente impotenti e morbide rispetto al caso Regeni e a una giustizia che è stata ostacolata, con depistaggi e atti ignobili, dal regime di Abdel Fattah al-Sisi.

Eppure la continua attenzione sul destino di Zaki è servita, se è vero che un primo passo in avanti è stato fatto. Questa volta, i giudici egiziani, forse grazie anche al lavoro della diplomazia italiana, hanno interrotto la balorda pantomima del prolungamento della detenzione, arrivando a decretare la liberazione di Patrick. Ma è sufficiente? No. Non lo è, dato che solo l’assoluzione può mettere fine a questa vicenda, almeno dal punto di vista del presente e dell’immediato futuro di questo ragazzo. Dopodiché bisognerà continuare a vigilare e soprattutto non dimenticare quello che gli è stato fatto. Non bisogna dimenticare la mano violenta dell’Egitto, con Zaki e ancor più con Giulio Regeni e con tanti altri di cui non conosciamo il nome e il volto. Il nostro Paese non può accontentarsi di qualche apertura per giustificare i rapporti che non si sono mai interrotti con il regime di al-Sisi.

Rapporti che, dietro la facciata politica dell’alleanza per la stabilità dell’area medio-orientale, nascondono interessi economici, investimenti, soprattutto per le aziende che vendono armi e per quelle del settore energetico (gas in particolare). Eni e Finmeccanica su tutte. Interessi che, nel mondo di oggi, prevalgono sui sogni e sul destino delle future generazioni, soprattutto quelle attivamente impegnate per un mondo più giusto, nel quale i diritti prevalgano sul profitto e sulla violenza che esso genera. D’altra parte, viviamo in un’epoca che è nel pieno della lunga onda di una politica incapace di proiettare una visione a lungo termine. Un’onda iniziata a metà degli anni ‘90 e ingrossatasi all’inizio del nuovo millennio, quando le spinte giovanili internazionali, che sembravano destinate a diventare un movimento senza confini, sono state pian piano soffocate, polverizzate, frammentate, fino a ritrovarsi isolate, malgrado la dimensione unificante (a livello di comunicazione quantomeno) della globalizzazione.

Genova 2001 è stato lo spartiacque, il colpo in testa che ha tramortito i sogni e le rivendicazioni di almeno tre generazioni. Poi, negli ultimi anni, davanti al fallimento di quelle forze politiche che promettevano un cambiamento e alla fragilità di quelle che avrebbero dovuto mostrarsi disposte a lasciarsi permeare da visioni illuminate e solidali, altri giovani hanno deciso di provarci. Chi con lo studio, con la ricerca e con l’indagine, chi con l’attivismo per i diritti, contro le discriminazioni, per la solidarietà, per quelle azioni di umanità che sostituiscono l’inerzia criminale degli Stati, sempre più chiusi, e per la tutela dell’ambiente e del futuro del Pianeta. Milioni di ragazze e ragazzi, che il potere dipinge sempre negativamente, solo perché non ne conosce né comprende il linguaggio, hanno iniziato a farsi sentire. Come sempre, per un po’ di tempo, li hanno lasciati fare, hanno anche fatto finta di ascoltarli. Ma rapidamente hanno iniziato a deriderli, screditarli o, come avviene in molte zone del mondo (non solo in Egitto), a punirli.

Se Greta Thunberg viene dipinta come un prodotto artificiale creato appositamente da qualcuno che ne muove i fili, Patrick Zaki viene arrestato perché ritenuto sovversivo per le sue opinioni democratiche, così come Joshua Wong, attivista pro-democrazia di Honk Kong, viene arrestato più volte e con accuse ridicole dal governo cinese. Giulio Regeni, invece, viene ucciso perché sta facendo ricerca e sta indagando sulla tutela dei diritti dentro un Paese che sui diritti ha stretto le maglie da tempo, nel silenzio della comunità internazionale. Così come avviene ed è avvenuto nel Brasile di quel Bolsonaro tanto caro alla destra italiana, dove sono stati eliminati Marielle Franco e Paulo Paulino Guajajara, attivisti impegnati per la difesa dei diritti umani e dell’ambiente; o in Messico, dove è stata uccisa l’attivista per i diritti delle donne, Isabel Cabanillas, e in Argentina, dove hanno trucidato Santiago Maldonado, che sosteneva la causa dei Mapuche. Ma avviene anche in Europa e anche nei confronti di giovani giornalisti come Ján Kuciak, slovacco, ucciso insieme alla fidanzata Martina Kušnírová.

Un elenco funesto che contiene, purtroppo, tanti altri nomi. Un elenco che è il marchio di una società che non solo non ama i giovani che non si massificano, che non si arrendono e che lottano per un ideale, ma li disprezza, li detesta e, perfino, li uccide o lascia che rimangano in carcere, ingiustamente, per 22 mesi. Oggi la politica esulta, soddisfatta, ed è tutta una corsa a chi, in modo più o meno subliminale, prova ad attribuirsi il buon esito momentaneo della vicenda. Che però non è affatto risolta e, soprattutto, non risolve l’indifferenza, la narrazione tossica, il fastidio, la delegittimazione che il potere, nel suo insieme ed ovunque, rivolge ai giovani che pensano, sognano ancora e non arretrano.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org