Nella terra di nessuno che è diventata la Bosnia-Erzegovina, il sipario del “gioco politico” cala sulla tendopoli di Lipa. Chiamarla tendopoli è surreale: andata a fuoco il 23 dicembre del 2020, in circostanze mai chiarite, di quel campo restano solo gli scheletri di quello che un tempo aveva solo la parvenza di un centro di accoglienza. In quello scheletro, mille e più persone provano a sopravvivere, in attesa che l’Europa si accorga di loro e apra la porta di quel confine che separa la disperazione dalla speranza. È l’ennesima catastrofe umanitaria che pesa sulla coscienza e sul cuore di un’Europa che rimbalza ogni responsabilità, indifferente e fredda.

È freddo l’inverno in Bosnia, di notte le temperature arrivano a 20 gradi sotto lo zero. Il freddo entra nelle ossa e nel cuore di chi sa che è condannato ad un perenne gioco dell’oca che costringe sempre a ripassare dal via. La loro storia, in quella terra di frontiera, ha radici lontane e, nell’estate del 2019, dopo un cammino lunghissimo, quel mare di umanità arriva a Bihac, cittadina bosniaca al confine con la Croazia. Sono in gran parte giovanissimi e provenienti dall’Afghanistan e dal Pakistan, dall’Iran e dalla Siria, dall’Iraq. Arrivano in Bosnia dalla Serbia, attraversando quel confine naturale, il fiume Drina, che separa i due Paesi. Un confine difficile da controllare e gestire per le autorità di Sarajevo, arrivate a decidere se schierare i propri militari alla frontiera per bloccare i migranti. La proposta ha subito trovato il rigetto delle autorità politiche e militari serbe, così come i controlli severissime della polizia di frontiera croata vegliano sull’altro confine, quello con la Croazia. Croazia che è stata accusata dalle organizzazioni internazionali e da molte Ong di atti di violenza sui migranti.

In questo scenario i profughi arrivano scortati dalla polizia e “accolti” in una ex discarica, trasformata in un improbabile campo profughi dalla Croce Rossa, dove mancano acqua corrente ed elettricità, manca il cibo, ma questo non interessa all’Europa, forse perché si pensa che un esercito di disperati non abbia bisogno di queste “comodità”. I volontari di Medici senza Frontiere hanno segnalato fin dal primo momento l’impossibilità di resistere a lungo in queste condizioni, che possono solo peggiorare con l’arrivo dell’inverno. Anche la Croce Rossa, che dall’inizio di questa storia aveva sostenuto il piano in accordo con le autorità locali, oggi minaccia un passo indietro se non verrà trovata una sistemazione alternativa. Il gioco politico dell’Europa è pericoloso e umanamente inqualificabile.

La sensazione è che, a preoccupare i vertici politici europei e i vari governi, non siano tanto le condizioni inumane in cui vivono i migranti, quanto la vicinanza al confine con la Croazia e il timore che questo esercito di dannati possa così entrare, attraverso la Croazia, nell’Europa che conta e che in tutti questi anni non ha mai davvero saputo o voluto gestire il dramma dei migranti. Nessun sentimento di pietà o solidarietà con i profughi, ma questa non è una novità per il Vecchio Continente, ben lontano dall’assumersi responsabilità politiche su questo tema. A rendere ancor più drammatica e di difficile soluzione tutta la questione è il fatto che questa partita si gioca in un territorio avvelenato da antiche ferite. La Slovenia ha trasformato il centro suo di accoglienza, a Postojna, in una vera e propria struttura detentiva: i migranti intercettati sul territorio sloveno vengono reclusi. La permanenza nei centri di reclusione può durare anche sei mesi, dopodiché vengono riaccompagnati al confine e consegnati nelle mani della polizia croata.

La rotta balcanica oggi è questa, in mezzo a quei boschi e a quei sentieri dove ad ogni passo si rischia di mettere un piede sulle tante mine ancora inesplose, eredità di quella guerra che ha distrutto quella terra che una volta si chiamava Jugoslavia. È l’ennesima emergenza umanitaria annunciata, dove ognuno gioca a carte coperte e in gran parte truccate. La Comunità Europea chiede che “le autorità bosniache a tutti i livelli intraprendano azioni immediate per risolvere subito la situazione“, ma quali e quante sono le reali possibilità che la Bosnia possa far fronte a questa situazione? Quali azioni ha messo in campo l’Europa stessa perché siano rispettati quei diritti fondamentali dell’uomo di cui si scrive nelle Carte costituzionali e nei Trattati?

La Bosnia è quell’angolo di terra della ex-Jugoslavia che più di tutte ha pagato il prezzo di quella follia che ha chiuso il Novecento, ed è stato un prezzo altissimo che ha segnato inevitabilmente intere generazioni. Quella follia è stata qualcosa di più di una guerra anche se sembra difficile pensare a qualcosa di più feroce di una guerra. Ma in Bosnia quel qualcosa di più è successo, e questo è innegabile. Oggi quella terra, e quello che rimane di quelle generazioni e di quei figli, deve ancora ricostruire se stessa ed è un compito difficile, forse impossibile da compiere in così poco tempo.

L’attuale amministrazione politica del Paese è figlia degli accordi di Dayton del 1995. A condividere la guida del Paese, e quindi il potere, sono le tre componenti etniche che lo compongono, definite come “popoli costituenti”, e che durante la guerra si contendevano il potere: bosgnacchi (musulmani, che rappresentano circa il 50%), serbo-bosniaci (ortodossi, circa 31%), croato-bosniaci (cattolici, circa 15%). Questo rende una pallida idea di quanto sia difficile attuare una politica di ricostruzione del Paese e che, al tempo stesso, sia capace di gestire l’emergenza dei migranti. Nell’autunno scorso in Bosnia si sono svolte le elezioni per il rinnovo delle Camere, e questo appuntamento ha segnato la sconfitta della classe politica che ha guidato la Bosnia negli ultimi vent’anni. Queste elezioni sono state un vero terremoto politico e segnano un nuovo inizio sulla strada di una difficile ricostruzione, che inevitabilmente dovrà fare i conti con le resistenze della vecchia classe politica che ostacolerà in ogni modo quel cambio di vertice.

L’area in cui sorge la tendopoli di Lipa, tra Bihać e Bosanski Petrovac, è un’area popolata in maggioranza da un’enclave serba che, dopo la guerra, è ritornata in quei territori e da subito si è opposta alla costruzione della tendopoli. Non mancano le ostilità e gli atti di intimidazione e di violenza nei confronti dei migranti e anche verso quella parte di popolazione solidale con i profughi (leggi qui). L’odissea dei migranti è un dramma a cielo aperto, dal Mediterraneo ai Balcani. È impensabile che ogni singolo Paese sia capace di curare da solo una ferita di cui il mondo intero è responsabile: le persone scappano da guerre, violenze, miserie e carestie. L’Occidente ha la sua gran parte di responsabilità in queste migrazioni drammatiche, ma sembra che nessuno voglia davvero accettare tutto questo e fare la sua parte per un mondo diverso, per un mondo migliore.

Anche per questo, l’azione della Comunità internazionale dovrebbe mirare ad un’assunzione di responsabilità collettiva. Per questo, o anche per questo, quella stessa Europa assente e silenziosa su quanto succede da anni nel Mediterraneo, sorprende nel prendere posizione sull’emergenza Bosnia. Prendere una posizione però significa anche decidere di essere protagonisti attivi, lasciando da parte i giochi e gli equilibrismi politici.

Maurizio Anelli (Sonda.life) -ilmegafono.org