Maurizio Debanne è un giornalista di 40 anni ed è il portavoce e capo ufficio stampa per l’Italia di Medici Senza Frontiere. Di se stesso racconta che: “Dagli israeliani e dai palestinesi ho imparato che esistono le sfide impossibili. Dal film ‘Il Grande Lebowsky’ che bisogna mantenere la calma. Da Seneca che non esiste vento favorevole per chi non sa dove andare”. Nel gennaio di quest’anno, quando il Coronavirus non era ancora la pandemia che oggi spaventa il mondo, scriveva che “se si può stilare una classifica dei posti peggiori del mondo, sicuramente il campo profughi di Moria è tra i primi. Un campo pensato per 3 mila persone oggi ne ospita 19 mila, il 40% sono bambini che arrivano anche a tentare il suicidio”.

La maggioranza dei profughi che sopravvivevano in quel campo, umiliati nel cuore e nel corpo, arrivavano dall’Afghanistan e dalla Siria, dall’Iraq, dalla Striscia di Gaza e dal Congo. Arrivare fino a lì era già stato qualcosa che andava oltre l’immaginazione, ma loro erano riusciti a farlo e in quell’inferno provavano a ricomporre un mosaico che altrove si chiama vita. Poi, in una notte di settembre l’incendio divampa in silenzio e inghiotte tutto: la baraccopoli e il centro di detenzione, la speranza. Restano solo la cenere e gli avanzi degli ulivi carbonizzati, quello che solo il giorno prima era un accampamento non c’è più. Rimane nell’aria quell’odore acre, a metà strada fra la morte e la fine di una speranza. Il fuoco e il calore piegano e deformano tutto. Qualcuno torna, o resta, per provare a recuperare quello che resta di un cammino interrotto: qualche oggetto personale, qualunque cosa che possa ricordare un passato che da qualche parte è stato, in una terra che ovunque essa sia è sempre più lontana.

Cosa resta del campo di Moria, adesso? Non era bello quel campo, simbolo freddo e terribile dell’indifferenza dei grandi della Terra, reso ancora peggiore dall’inasprimento delle politiche della vecchia Europa: baracche senza acqua corrente ed energia elettrica circondate dai rifiuti. Ma ora, cos’è? In quelle baracche 20mila anime, mille più mille meno, cercavano di vivere comunque e nonostante. Cercavano la speranza di una vita e per quanto questo possa sembrare incredibile, ai nostri occhi, era così. Oggi quella parola, speranza di vita, non esiste più perché il fuoco se l’è portata via.

L’hotspot di Moria nasceva nel 2015, era stata l’Europa a volerlo. Nelle intenzioni dichiarate doveva essere un centro di passaggio temporaneo per i migranti che arrivavano dalla Turchia via mare: il tempo necessario per essere identificati e poi essere trasferiti e ricollocati nei paesi dell’Unione europea. Ma non è andata così. Nel gennaio del 2020 la Grecia approva una nuova legge sull’asilo che, di fatto, rende quasi impossibile ottenere quell’asilo. In seguito, il governo di Atene blocca tutti i trasferimenti sulla terraferma e le restrizioni diventano ancora più pesanti: a partire dal mese di marzo i migranti potranno uscire dai campi solo “in piccoli gruppi” e con solo una persona per famiglia presente nei gruppi, mentre anche i movimenti sui trasporti pubblici vengono controllati e regolati dalla polizia. È anche così che quello che era un campo destinato a poche migliaia di migranti diventa un inferno per migliaia di donne, uomini e bambini.

Nel frattempo, in Europa la pandemia da Coronavirus diventa la minaccia che tutti abbiamo imparato a conoscere, e dei migranti si parla sempre meno. Nella vita di tutti i giorni e di ogni epoca ci sono sempre delle priorità e gli ultimi della fila restano ancora più ultimi. È così da sempre, e così continuerà ad essere. Un giorno, forse, l’Europa dovrà fare i conti con la propria coscienza e con la storia. Un giorno, forse, capirà dove e quando ha allevato una generazione che avrà tutto il diritto di non amarci, e forse di odiarci, per tutto quello che le abbiamo fatto subire. Un giorno, forse, l’Europa maledirà le firme sui trattati e sugli accordi firmati con la Libia o con la Turchia di Erdogan, ma quel giorno sarà sempre troppo tardi. Il fallimento delle politiche scelte dall’Unione Europea nei confronti della gestione dei migranti è davanti agli occhi di tutti, ma sembra che nessuno sappia o voglia prenderne atto.

Sono milioni i migranti e i rifugiati in fuga dalle loro terre per mille motivi, in Europa come in altre parti del mondo, ma quel mondo sembra non accorgersene. Nel tempo della pandemia da Covid-19 le comunità di migranti e rifugiati sono in condizione di spaventosa vulnerabilità, per loro il rispetto delle minime precauzioni non è neppure immaginabile. Come possono farlo nei campi profughi e nei centri di detenzione? Le condizioni di vita vanno oltre la precarietà: le condizioni igieniche, la carenza di acqua potabile e di energia elettrica, la malnutrizione, l’esposizione al freddo, l’assenza di un tetto, tutto assomiglia ad una condanna già scritta. Eppure, c’è stato un tempo infinito prima del Covid-19; un tempo dove il destino dei migranti e dei rifugiati è stato sempre in fondo alle priorità dell’Europa e del mondo occidentale. Il mare Mediterraneo è diventato un immenso cimitero nell’indifferenza di governi e Stati.

Sabato 3 ottobre, presso il Tribunale di Catania, è stato il giorno dell’udienza preliminare del processo a Matteo Salvini per il caso “Gregoretti”. Comunque vada il processo e qualunque possa esserne l’esito finale, la storia non potrà essere dimenticata. Molti la raccontano e la racconteranno come meglio conviene al proprio tornaconto personale e politico. Molti ancora la distorcono e la negano senza vergogna. Ma la storia di questo nostro Paese racconta di un uomo politico che per anni ha seminato odio razziale ad ogni intervento pubblico nelle piazze, nei salotti televisivi, nel Parlamento della Repubblica. Lo stesso uomo ha poi scalato i vertici delle istituzioni e, da vicepresidente del Consiglio e da ministro degli Interni, ha messo in atto ogni atto politico capace di umiliare la dignità umana, calpestando ogni legge degli uomini e del mare. Di questo dovrà rispondere, nelle aule di un tribunale e davanti al Paese.

Ma Matteo Salvini è stato per anni in nutrita e miserabile compagnia: accanto a lui la destra sovranista e fascista di quella stessa Europa, quindi anche l’Italia, che dopo aver contribuito per secoli a cannibalizzare e colonizzare il continente africano oggi si concede il lusso di chiudere le frontiere e i porti, costruire muri ed ergere fili spinati, firmare accordi con Paesi trafficanti di uomini, di criminalizzare le ONG, di insultare e processare chi salpa il mare a bordo di una nave per accogliere pezzi di umanità. Accanto a questi uomini politici una grande responsabilità deve assumersela anche una parte rilevante del mondo dell’informazione che, spesso, ha alimentato con notizie inventate e assurde il muro di ostilità nei confronti dei migranti e delle organizzazioni umanitarie.

A loro il peso di convivere con questa responsabilità, forse un giorno dovranno spiegarla alle generazioni future, ai propri figli. Qualcuno pensava che la pandemia avrebbe reso il mondo almeno un po’ più umano e migliore di prima, non è andata così. Abbiamo imparato alcune cose per provare a difenderci dal virus, ma una cosa era già chiara da tempo, al mondo e alla vecchia Europa: come lavarsi le mani. Era chiara da più di 2mila anni, ad insegnarla fu un Procuratore romano della Giudea, si chiamava Ponzio Pilato.

Maurizio Anelli (Sonda.life) -ilmegafono.org