Nel giardino di casa l’albero avvelenato viene accudito con cura, cresce e genera frutti velenosi come le sue radici. È la vecchia storia delle “mele marce”, che parte da lontano ma che oggi è così logora che non si regge più sulle gambe malferme di uno Stato che non è mai stato. Stupisce lo stupore di chi, solo oggi, si meraviglia che una caserma dei Carabinieri sia diventata una camera dell’orrore. Viene da chiedersi dove aveva vissuto fino ad oggi chi si sorprende di questo. Dov’erano nascoste queste persone, in quell’estate del 2001, quando la caserma di Bolzaneto era diventa la versione italiana della “Escuela Superior de Mecánica de la Armada” di Buenos Aires? Perché anche il nostro Paese ha avuto da sempre il suo “Garage Olimpo”, ma in pochi hanno saputo e voluto guardare in faccia quella verità, e chi ha osato raccontarla e denunciarla è sempre stato deriso e umiliato da molti di coloro che oggi si indignano o fingono di indignarsi.

L’albero avvelenato ha tante storie da raccontare: ognuna di queste storie gode della copertura offerta da una divisa fornita dallo Stato, quello stesso Stato che dalla caduta del fascismo ha dato protezione e ospitalità ai tanti vermi del regime fascista usciti indenni e ripuliti da un’amnistia vergognosa. Per molti di loro c’è stata da subito una prestigiosa poltrona disponibile nelle Prefetture e nelle Questure di quelle città dove, più che altrove, le lotte sociali e di classe si facevano strada. Nella Milano delle bombe e di Piazza Fontana, nella Milano dove si “cadeva” dalla finestra della questura, chi era il “feroce Questore”? Era Marcello Guida: funzionario di polizia durante il fascismo, divisione affari generali e riservati. Nel 1937 venne nominato vicedirettore della colonia penale di Ponza prima e di Ventotene poi, diventandone Direttore. Luoghi di confino politico, Sandro Pertini li conobbe entrambi per la sua attività antifascista. E proprio Sandro Pertini, dopo la strage di Piazza Fontana e in occasione di una visita ufficiale a Milano come Presidente della Camera dei deputati, si rifiutò pubblicamente di stringergli la mano per questo motivo.

Per gli uomini del fascismo si sono aperte anche le porte accoglienti dell’Arma dei Carabinieri, della Polizia di Stato, dei Servizi Segreti, finanche del Parlamento. Nell’estate del 1960 la caccia all’uomo nelle piazze e nei caruggi di Genova ha solo anticipato quella ferita inguaribile dell’estate del 2001.

Si potrebbero scrivere pagine infinite sul ruolo dell’Arma, della Polizia di Stato e dei Servizi, nelle trame eversive che hanno avvolto l’Italia nella ragnatela tessuta con cura negli anni della strategia della tensione, nella conduzione e nella gestione delle indagini, nei depistaggi. Eppure, ogni volta ci è stata raccontata la favola assolutoria delle mele marce.

Sul finire degli anni ‘80 e fino alla metà degli anni ‘90, la banda della “Uno bianca” seminò il terrore nelle strade fra l’Emilia-Romagna e le Marche. Il bilancio finale fu di un centinaio di azioni criminali e decine di omicidi. Mele marce, anche loro. La divisa è sempre in ordine e ben stirata, chi la indossa si sente protetto e autorizzato a fare quello che vuole. Lo Stato tace, il silenzio è sempre complice e quel silenzio viene rotto solo quando non si può più nascondere oppure quando la voce di qualche politico decide che non c’è limite alla vergogna e alza la sua voce per difendere sempre e comunque qualunque divisa, anche quella più intrisa di sangue e di fango.

È il caso di Carlo Giovanardi: una laurea in giurisprudenza e poi il servizio militare nell’Arma dei Carabinieri. Eletto al Senato della Repubblica, nel 2008 inizia una sua personale battaglia in difesa di qualunque divisa sbagliata. Un accanimento particolare si accende nei confronti delle famiglie di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi, oggetto di insulti e accuse violente. È una difesa a spada tratta nei confronti dei militi di polizia e carabinieri, anche di fronte a testimonianze e accuse inconfutabili. Per il senatore Giovanardi i due ragazzi sono sempre stati colpevoli della loro stessa morte.

Poi arriva l’estate di Genova, nel luglio del 2001: giorni di totale sospensione dei diritti e di una folle macelleria umana, raccontati sui giornali e sulle televisioni di tutto il mondo, nessuno può fingere di non averli visti. In quelle strade bruciate dal sole e dai lacrimogeni c’è tutta la brutale violenza di uno Stato di polizia complice e vigliacco, tutta l’ipocrisia del potere, quello in divisa e quello in doppiopetto e cravatta. È la catena del comando: nelle stanze dei bottoni a dettare il compito e nelle strade della città a svolgerlo. Resta un ragazzo che muore sull’asfalto ma nessuno guarda alla luna, tutti vedono solo un estintore: nei salotti televisivi, nelle redazioni dei giornali che contano, nelle aule del Potere. Carlo Giuliani aveva solo vent’anni, ma non importa a nessuno.

Alla Diaz succede il finimondo, ma non importa neanche quello. A Bolzaneto inneggiano al fascismo, sputano e picchiano, feriscono corpi, cuori e cervelli, torturano come nelle galere cilene e argentine dei generali, ma non importa. Sono mele marce, ma faranno tutti un passo avanti nelle loro carriere… a cominciare dal Capo della Polizia, Gianni De Gennaro: nel maggio del 2012, il governo Monti lo nomina sottosegretario di Stato, con delega alla sicurezza della Repubblica. Nel luglio del 2013, il governo Letta lo nomina presidente di Finmeccanica, il gioiello dell’industria italiana.

Anche a Ferrara e a Roma muoiono due ragazzi, la loro colpa è stata quella di attraversare la strada sbagliata nel momento sbagliato. Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi si chiamavano. Anni di indagini a vuoto, silenzi e coperture, connivenze. Due donne d’acciaio e con il cuore in mano, la madre di Federico e la sorella di Stefano fanno crollare il muro di gomma su cui hanno sbattuto la testa per anni, ma lo Stato nasconde la faccia, e Carlo Giovanardi ha continuato ancora a parlare e insultare quelle donne e quei ragazzi. Ma luglio è un mese caldo, succede sempre qualcosa a luglio.

Nel luglio del 1992 i poliziotti onesti gridavano “fuori la mafia dallo Stato”. Erano i giorni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e di quegli uomini delle scorte, massacrati perché facevano il loro dovere. Fuori dalla Basilica di Palermo, lo Stato e il Potere scappavano di fronte a quel grido. È cambiato qualcosa? Le “mele marce” hanno continuato a rimanere tali, nelle istituzioni e nelle divise che rappresentano uno Stato che non c’è mai stato. Oggi la “Gomorra” della caserma dei Carabinieri di Piacenza esplode nelle mani dello Stato come una bomba. Qualcuno indagava su di loro da tempo, ma loro continuavano la loro vita sporca di sangue e letame: le porcherie più immense venivano commesse mentre in Italia, in Lombardia e a Piacenza, le persone morivano come mosche per la pandemia.

Non si sono fermati neanche di fronte al Covid, anzi… una storia di violenze e pestaggi, spaccio e denaro. I media oscurano per giorni il volto di questi delinquenti in divisa, perché? Quei volti dovrebbero essere visti da tutti per poterli riconoscere sempre, anche fra qualche anno quando magari saranno ancora liberi di circolare per le strade. Però non si sente la voce di Carlo Giovanardi in questi giorni, non si vede un ex ministro degli Interni fare il giro delle piazze con la felpa d’occasione. Non si sente l’indignazione di Giorgia Meloni che nell’estate del 2018 si opponeva al reato di tortura perché “…impedisce agli agenti di fare il proprio lavoro. Siamo sempre dalla parte delle forze dell’ordine”.

No, non si tratta di mele marce. C’è un albero avvelenato nel giardino di casa che lo Stato nutre e protegge. Quell’albero affonda le sue radici nella storia dello Stato italiano, colpevole e colluso. Quelle mele hanno sempre assaporato il gusto dell’impunità, e quella divisa è sempre stata il loro scudo protettivo. Chi si stupisce oggi è davanti a un bivio: o è cieco oppure è in malafede, a loro scegliere la risposta in cui identificarsi. Allo Stato il compito e il dovere di dimostrare che non è così: l’albero avvelenato va tagliato alle radici, non si può curare. Non bastano e non servono le parole di circostanza balbettate davanti alle telecamere. Serve una disinfestazione totale del giardino e i giardinieri che hanno nutrito e fatto crescere quell’albero vanno isolati, rimossi, cancellati dalla vita civile. Se questo non accadrà, se tutto tornerà come prima e come sempre, con le divise in ordine e ben stirate, lo Stato e le istituzioni di questo Paese un giorno dovranno assumersi tutta la responsabilità morale, civile e politica, della sconfitta che loro hanno scritto. Punto e a capo.

Maurizio Anelli (Sonda.life) -ilmegafono.org