La risoluzione 60/7 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 1º novembre 2005 consegna al 27 gennaio una parola carica di significato e di valore: Memoria. “Condannare tutte le manifestazioni di intolleranza, incitamento, molestia o violenza contro persone o comunità, sia su base etnica che religiosa”. La memoria è il primo inchiostro della storia, ma è fragile e troppo spesso la gomma del tempo e gli uomini cancellano l’inchiostro e provano a riscrivere la storia. Il 27 gennaio del 1945, le truppe dell’Armata Rossa aprivano i cancelli di Auschwitz e alzavano il sipario su quell’insulto all’umanità che il mondo aveva permesso. Per un tempo infinito i governi e le diplomazie avevano fatto finta di non capire e di non vedere quello che fin da subito era così evidente, chiaro come la birra che scorreva a fiumi nei locali dell’Hofbräuhaus, la birreria di Monaco di Baviera dove, nel febbraio del 1924, Adolf Hitler urlava i 25 punti programmatici del Partito Tedesco dei Lavoratori. Pochi giorni dopo quel comizio, e quei brindisi, quello stesso partito diventerà il Partito Nazionalsocialista della Germania.

Sono passati tanti anni da quel 27 gennaio del 1945, la coscienza è una carta sulla quale l’inchiostro della memoria scivola e sbiadisce diventando ogni giorno più timido e la memoria viene messa in un cassetto, un giorno alla volta, come si fa con le vecchie fotografie di un album di famiglia che non interessa più a nessuno. Quelle fotografie in bianco e nero sono parte di una storia che è anche nostra, ci parlano di un tempo che è meno lontano di quanto sembra, raccontano un percorso tracciato con cura e freddezza, pianificato nei minimi dettagli fino al disegno finale costato milioni di vite umane. Quella tempesta perfetta si è realizzata perché in troppi non hanno voluto vedere i primi fulmini in quel cielo nero sopra l’Europa, convinti che quei fulmini sarebbero caduti solo su piccole minoranze il cui destino non interessava a nessuno. Quelle minoranze erano pezzi di umanità: zingari, ebrei, omosessuali, comunisti …

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare” (Martin Niemöller).

Martin Niemöller era un pastore luterano, arrestato su ordine di Hitler dopo un sermone antinazista. Deportato nel campo di concentramento di Dachau riuscì a sopravvivere per morire, nel 1984, dopo una vita passata a lottare contro ogni discriminazione. Indifferenza ed egoismo, malvagità e opportunismo politico: tutto il male che l’essere umano poteva contenere dentro di sé trovava la porta aperta e usciva per camminare sulle strade dell’Europa. Furono in tanti a dare un contributo, in troppi chiusero gli occhi di fronte alla polvere che avvolgeva intere generazioni. Più tardi quella polvere diventava fumo che usciva dai camini di Auschwitz, Bergen-Belsen, Buchenwald, Dachau e Mauthausen, solo per ricordare i nomi più ignobili dell’inferno. Ma la strada per arrivare alle porte di quell’inferno passava o partiva anche dall’Italia, dai suoi trenta e più campi di concentramento e di transito: da Fossoli a Bolzano, dalla Risiera di San Sabba, a Trieste, a Borgo San Dalmazzo.

In quei campi si smistava la “Merce” da caricare sui treni per la Germania e la Polonia, si selezionavano le vite da cancellare: ebrei, rom, dissidenti politici. Al binario 21 della Stazione Centrale di Milano partivano i treni per l’inferno di Auschwitz e poi ritornavano, pronti per un altro carico di umanità da scaricare sull’altra sponda dell’Acheronte. Non sono mai stato ad Auschwitz, non ho mai visto nessuno di quei campi. Ma chi ci è stato è tornato e mi ha raccontato, ho ascoltato ed è ora che io colmi questa mancanza. Non sono mai salito su quella scala ripida che porta alla soffitta di una casa di Amsterdam dove una ragazzina credeva ancora, e nonostante tutto, nella bellezza della vita: “Uno può sentirsi solo, anche quando è amato da molte persone. Prova anche tu, una volta che ti senti solo o infelice o triste, a guardare fuori dalla soffitta quando il tempo è così bello. Non le case o i tetti, ma il cielo. Finché potrai guardare il cielo senza timori, sarai sicuro di essere puro dentro e tornerai ad essere felice” (Anna Frank). Il tempo passa e corre veloce, più veloce di me: è arrivato il momento per salire quella scala, conoscere quella soffitta e guardare il cielo da quel punto di vista, senza timori.

Sono passati settantacinque anni dai cancelli aperti di Auschwitz, ma quella ferita non si può ricucire. Il tempo inganna tutti perché non guarisce mai nessuna ferita, soprattutto quando gli Uomini gettano ancora alcool su quella ferita. E così tornano ad alzare la voce quelle bestie del Novecento, mai rimosse fino in fondo e mai davvero sconfitte. Parole squallide e tristi tornano a rifiorire sulla bocca di troppi: confini, razza, muri e fili spinati. Paesi che hanno conosciuto e vissuto sulla propria pelle l’orrore e la violenza della notte del Novecento oggi riempiono le piazze con i simboli e le bandiere di quella notte: sfilano ancora con il braccio teso e indicano ancora un nemico da azzannare, come cani feroci. Oggi come ieri il nemico ha il volto del diverso: per origini e per cultura, per il colore della pelle, per una religione diversa, per il Paese da cui arriva o da cui è scappato per sopravvivere. Anche nel cortile di casa nostra il braccio teso torna ad alzarsi, seminando odio etnico e razziale, pronto ad azzannare come un tempo e, sempre più, si accompagna con chi chiede pieni poteri.

È giusto fermarsi, ricordare e riflettere su ciò che è stato, ma la memoria è un fiore che ha bisogno di spazio per crescere, come un’edera che si arrampica sul muro del passato per andare oltre, cercare un po’ di luce e aiutare l’Uomo a costruire un futuro migliore, ma senza dimenticare il filo spinato; quando il passato non insegna nulla e non riesce a legarsi al presente, l’edera smette di arrampicarsi e la memoria rischia di diventare solo una retorica senza speranza. Ricordare l’Olocausto del passato fingendo di non vedere le ombre del presente offende, e umilia, una volta di più, le vittime di quel passato e non rende la notte più chiara, prova solo a lavare la coscienza. La notte del nostro tempo è fredda e scura, e l’alba è difficile da vedere. È una notte che racconta quello che in tanti fingono di non vedere, come se non esistesse, non si rende giustizia alle vittime della Shoah ignorando i muri e il filo spinato che dividono il mondo, un nome su tutti: la Palestina. Non si sconfiggerà mai l’antisemitismo se si nasconde, si ignora o si protegge il sionismo.

Pericoloso, e inaccettabile, l’equilibrismo intellettuale di chi rifiuta a prescindere di discutere e condannare le politiche dello Stato di Israele come se questo significasse essere antisemiti. Il diritto alla vita del popolo palestinese non può essere il prezzo da pagare all’Olocausto. Sulla questione il silenzio delle diplomazie è assordante, oggi come allora, rotto solo dalla litania sul “diritto di Israele a difendersi” e dimenticando l’antico processo di colonizzazione che ha portato, nel corso del tempo, a un’autentica guerra etnica. Le critiche allo Stato e al governo di Israele non possono essere confuse con l’antisemitismo, altrimenti si offre a quello Stato e a quel governo lo strumento con cui controllare e giudicare il resto del mondo. Del potere sionista, e della sua capacità di condizionare la comunità internazionale, la pace e la memoria non hanno alcun bisogno. Ma il popolo palestinese non è il solo ad essere ignorato dalla memoria: dal Medio Oriente all’Africa, dall’Asia all’America Latina passando per altre realtà, gli Uomini calpestano il senso e il valore di questa giornata.

C’è un senso di amarezza per le mille occasioni perse dagli Uomini per dare un senso alla vita con il proprio agire. La deportazione di massa e lo sterminio sono una costante nella storia, da sempre. La storia dell’Umanità ci racconta di quante generazione e di quanti popoli sono stati cancellati dal tempo della vita. Nei campi di concentramento dei nazionalisti turchi, negli anni ‘20, il popolo armeno contò quasi un milione di vittime: un genocidio di cui ancora oggi non si parla liberamente. C’è sempre un punto di non ritorno per chi ha avuto dal destino la carta sbagliata e ogni paese ne è responsabile, anche l’Italia.

C’è un’edera che si arrampica sul muro della storia, è tenace e lotta tutti i giorni per non scivolare su quel muro. Ogni metro di quel muro disegna un volto e racconta una storia, scrive un nome e chiede di ascoltare una voce. Quell’edera ha bisogno, tutti i giorni, di un raggio di sole e di acqua per andare oltre quel muro, non basta che questo accada solo il 27 gennaio. Un giorno, per ricordare che l’indifferenza uccide. Domani è il 28 gennaio e di quell’edera si ricorderanno in pochi, fino al 27 gennaio dell’anno prossimo.

Maurizio Anelli (Sonda.life) – ilmegafono.org