“Un vigliacco è un essere che non ha mai osato guardare nel fondo della propria anima, che non ha mai cercato di scoprire da dove provenga il desiderio di liberare la fiera selvaggia, di capire che cosa siano la felicità, il dolore, l’amore: sono esperienze limite dell’uomo. E soltanto chi conosce queste frontiere può dire di conoscere la vita. Il resto è solo un far passare il tempo, un ripetere lo stesso esercizio, invecchiare e morire senza aver realmente saputo che cosa si stava facendo”. (Paulo Coelho)

Oggi è l’anniversario numero quarantatré della notte argentina: “Il rispetto dei diritti umani non deriva per noi unicamente dal dettato delle leggi o dalle dichiarazioni internazionali, bensì si basa sulla nostra cristiana e profonda convinzione che la dignità umana rappresenta un valore fondamentale. Assumiamo poteri assoluti per proteggere i diritti naturali dell’uomo, non per opprimere la libertà ma per esaltarla, non per piegare la giustizia ma per imporla…”. Sembra incredibile, ma queste sono alcune delle parole pronunciate dal generale Jorge Rafael Videla, presidente dell’Argentina e comandante in capo dell’esercito, nel suo discorso programmatico subito dopo il colpo di stato del 24 marzo 1976.

Quel giorno cominciò la lunga notte argentina, diversa nel suo primo giorno dalla notte cilena di tre anni prima: nessun bombardamento del palazzo presidenziale, niente carri armati nelle strade e nelle piazze. Tutto era stato preparato e calcolato in maniera diversa, nessuna televisione straniera poteva trasmettere l’inferno invisibile che si nascondeva dentro l’ESMA (Escuela Superior de Mecánica de la Armada), nelle centrali di Polizia di Buenos Aires, al poligono di tiro di Buenos Aires, oppure nella base navale di Mar del Plata. Tutto era pianificato dentro le mura e nei sotterranei di tortura e di morte della notte Argentina, come in quelli dell’Olimpo, edificio utilizzato come officina per la revisione dei veicoli e diventato poi un centro di tortura fra i più spietati.

Nei cieli argentini, i “voli della morte” scaricavano corpi e storie su quell’Oceano Atlantico che inghiottiva e non restituiva nulla. Oggi si sa quasi tutto di quella tragedia e dei trentamila “desaparecidos”, dei figli strappati alle madri, uccise o torturate dopo il parto, e regalati o venduti in adozione a militari o a famiglie complici di quell’orrore. A farci conoscere la storia di quella notte sono state soprattutto le straordinarie donne, mamme e nonne, di quella generazione rubata. Sono loro, le Madri di Plaza de Mayo, la candela della memoria della “Notte Argentina”. Hanno lottato fino alla fine, senza sosta, per quarant’anni per restituire la voce a un’intera generazione, con il loro candido fazzoletto bianco annodato sulla testa.

Gran parte della comunità internazionale girò la testa da un’altra parte e finse di non sapere e non vedere. Nulla di nuovo, era già successo: con il Cile del generale Pinochet, con il Salvador degli squadroni della morte del maggiore Roberto D’Aubuisson. Quel Salvador dove la vita di monsignor Oscar Romero, vescovo di El Salvador e simbolo del riscatto di milioni di contadini e proletari durante gli anni della dittatura, valeva circa 200 dollari. Questo il prezzo pagato al suo assassino per ucciderlo nella sua chiesa mentre celebrava la messa. Ma questa era la fotografia dell’America Latina di quegli anni, quando il mondo sapeva e taceva. Nel 1978, quando ormai la dittatura del regime militare era conosciuta in tutto il mondo, si disputano i campionati mondiali di calcio che devono diventare la vetrina luccicante del regime.

Gli italiani applaudivano gol di Paolo Rossi e Bettega, l’Italia riesce anche a vincere contro quell’Argentina costruita per vincere il mondiale e regalare fama e gloria al generale Jorge Rafael Videla. Al tempo stesso la stampa italiana più autorevole preferisce non dedicare grande spazio a quanto succede fuori dai campi di calcio argentini. Sono gli anni in cui la P2 di Licio Gelli controlla quasi tutto in Italia, per esempio il “Corriere della Sera”. E infatti la linea del Corriere è morbida: “Erano gli anni della proprietà – leggiamo su “Storie”, rubrica di Sky Sport – di Angelo Rizzoli e del controllo esercitato in maniera diretta dalla P2, attraverso la figura dell’amministratore Bruno Tassan Din e del direttore Franco Di Bella, iscritti entrambi alla Loggia massonica”.

“In cambio dell’acquisizione del maggiore gruppo editoriale argentino, Abril, ricco di ventidue testate, il Corriere – racconta Sky – assicurò una linea morbidissima nei confronti della dittatura militare, al punto da allontanare da Buenos Aires nel 1977 Giangiacomo Foà, il più coraggioso dei giornalisti nel denunciare i crimini commessi dai militari. A Buenos Aires, la sede della Rizzoli si trovava in Avenida Cerrito, nello stesso palazzo che ospitava il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e gli uffici privati dell’ammiraglio Massera, iscritto come Calvi, Rizzoli e gli altri protagonisti di questa brutta storia alla P2 di Gelli. Per il Mondiale, Di Bella vietò la trasferta a Enzo Biagi, ritenuto poco addomesticabile, al suo posto furono scelti altri giornalisti, tra i quali Paolo Bugialli.”

L’Argentina, alla fine, vinse quel mondiale, mentre l’Oceano continuava a inghiottire corpi che cadevano dai “Voli della morte”. Intanto, mentre il mondo celebra l’Argentina campione del mondo di calcio fingendo di non sapere cosa stia accadendo, a Mar del Plata si consuma una storia di altri ragazzi tutti giovanissimi: è la storia di una squadra di rugby, una squadra che vinceva sempre o quasi. Ma i ragazzi spesso pensano e quasi sempre lo fanno a voce alta e un giorno uno di loro parla a voce troppo alta mentre è al lavoro, in fabbrica. Qualcuno sente quella voce e il ragazzo sparisce, nel nulla. Si chiamava Diego, aveva diciassette anni e “giocava al rugby e alla rivoluzione”. Lo ritroveranno qualche tempo dopo sul letto del fiume con una pallottola in testa”.

Da quel giorno è un crescendo di reazioni, come il minuto di silenzio che diventa due, tre, cinque, dieci minuti, con cui i compagni di squadra onorano l’amico alla partita successiva e che rappresenta per il regime un segnale di sfida. Il regime non perdona quell’affronto e quella squadra sarà sconfitta, ma non sul campo di rugby. Uno a uno quei ragazzi vengono cancellati. Alla fine saranno diciassette i “desaparecidos” de La Plata, la squadra di rugby che vinceva quasi sempre. Uno solo si salverà, Raul Barandiaràn. E sarà lui a raccontare e a far conoscere questa storia, con Claudio Fava autore del libro “Mar del Plata”.

Oggi, nella sede della squadra, uno dei club più antichi del rugby argentino, a novanta chilometri da Buenos Aires un memoriale ricorda i nomi dei diciassette giocatori “desaparecidos”. Insieme a loro sono scomparse le amiche, le fidanzate, in alcuni casi le mogli. In un’intervista, Raul Barandarian racconta: “Mi chiedo da sempre come sia accaduto che siamo stati l’unica squadra a soffrire tutto questo in una percentuale così alta. Quando iniziammo a giocare a rugby, alla fine degli anni Sessanta, eravamo da poco usciti dal Collegio Nazionale, che dipende dall’università di La Plata. Credo che quella formazione da scuola pubblica ci abbia segnato: eravamo tutti ragazzi attenti a quello che accadeva intorno a noi, e fare politica fu una scelta naturale. I vertici della società si rendevano conto di quel che accadeva in spogliatoio: ma non ci hanno mai chiesto niente, né ci hanno mai discriminato”.

Il 24 marzo in Argentina è il Giorno della memoria per la verità e la giustizia. Il 24 marzo del 1976 dovevo ancora compiere 19 anni, due in più di Diego che pensava a voce alta. Avrei voluto che quel mondiale non si fosse mai giocato, avrei voluto che i giornali raccontassero di una dittatura che non metteva i carri armati nelle strade, ma faceva scomparire una generazione nel nulla e nel silenzio di mezzo mondo. Oggi so molte altre cose in più, per esempio che mi piace il rugby. E penso a un altro ragazzo argentino di tanto tempo fa che amava il rugby e la rivoluzione. Si chiamava Ernesto Rafael Guevara de la Serna.

Maurizio Anelli (Sonda.life) -ilmegafono.org