«…Non c’è nulla che eguagli l’andare sul posto. Un pezzo è diverso quando lo vivi, che sia a Milano o in Afghanistan. Il mestiere di giornalista va fatto così. Come l’ho fatto io. Faccio fatica a dare consigli, perché non voglio che mi si rimproveri di aver consigliato male…ho vissuto molte guerre e ho avuto paura. La paura resta. Resta sempre. La paura non è un’abitudine. Nonostante ciò, ho avuto una vita assolutamente felice. Ho fatto quello che mi piaceva: ho scritto» (Ettore Mo).

Un vecchio reporter di guerra dice che c’è un solo modo per raccontare, per fare capire a chi legge e a chi guarda cosa veramente significhi una guerra: è essere li. Sono tanti i giornalisti, i reporter, che sono stati capaci di “essere lì ”, per capire, per conoscere, per raccogliere una testimonianza e raccontarla. Non sono quasi mai graditi a chi decide come e quando fare una guerra, soprattutto se non si fermano di fronte alle prime apparenze, alle prime notizie. Qualche volta scavano in profondità e scavando trovano quello che non dovrebbero trovare. A volte sono firme già affermate, altre volte sono semplici inviati. Ma sono una presenza reale, capace di restituire la dignità al sistema dell’informazione. A volte incontrano qualcosa che è più forte di loro: una pallottola, una bomba, o un segreto che deve rimanere tale. È per questo che non potranno essere lì un’altra volta.

Ilaria Alpi era una giornalista televisiva del Tg3, aveva studiato l’arabo ed era entrata in Rai arrivando prima al concorso di ammissione. Nella primavera del 1994 era in Somalia, insieme all’operatore Miran Hrovatin, per seguire le vicende della missione “Restore Hope” durante la guerra civile. Ma non raccontava solo la guerra, raccontava anche tante altre cose difficili da accettare in Somalia come in Italia: per esempio il traffico illecito di rifiuti tossici tra Italia e Somalia, storie di signori della guerra locali e di navi provenienti dall’Italia. Raccontava di scorie velenose provenienti dall’Est europeo e sotterrate nel Corno d’Africa in cambio della fornitura di armi.

Il 20 marzo 1994, a Mogadiscio, il racconto di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin s’interrompe per sempre e da quel momento la storia di Ilaria diventa un labirinto infernale di prove occultate, depistaggi e falsità. Tutti partecipano al gioco: lo Stato italiano, i servizi segreti, una parte dell’informazione asservita e complice morale di poteri che fanno di tutto per non arrivare alla verità. Tanti governi si sono succeduti in Italia da quel marzo 1994, ci sono stati processi finiti nel nulla e, infine, dopo che la procura di Roma aveva riaperto le indagini, il pm Ceniccola chiede l’archiviazione del procedimento. Era il 4 luglio 2017.

Ilaria aveva trentatré anni in quel marzo 1994, e da quel giorno Luciana e Giorgio Alpi hanno speso ogni energia e ogni goccia di vita per cercare la verità sulla storia di quella loro figlia, giornalista che aveva saputo “essere lì sul posto” per raccontare. Hanno conosciuto sconfitte, illusioni, muri di gomma e reticenze. Hanno conosciuto il peggio di quello Stato che la loro figlia onorava con il proprio lavoro al servizio dei cittadini. Hanno incontrato l’avvocato Carlo Taormina, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta, che ha vomitato l’insulto peggiore sostenendo che Ilaria era in Somalia perché in vacanza (leggi qui).

Luciana e Giorgio Alpi non si sono mai arresi, hanno continuato a cercare la verità. Intorno a loro la solidarietà e l’affetto della gente comune, dei colleghi di Ilaria o almeno di una gran parte di loro. Perché nella cesta ci sono anche mele buone e pulite e mi vengono in mente due nomi in particolare: Maurizio Torrealta e Italo Moretti, ma sono sicuramente molti di più. Nel 1995 l’associazione Ilaria Alpi istituisce il Premio Ilaria Alpi, dedicato al giornalismo d’inchiesta che dimostri l’impegno riguardo ai temi sociali. È un premio prestigioso, promosso dalla Regione Emilia-Romagna, dal Comune di Riccione e dalla Provincia di Rimini. Al Premio collaborano la Rai, l’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia-Romagna e la Federazione Nazionale Stampa Italiana con il patronato della Presidenza della Repubblica.

Per Luciana e Giorgio quel premio aveva un valore intenso, era un mezzo per arrivare alla verità sulla morte di Ilaria e a un livello di consapevolezza cui forse questo Paese non vuole arrivare. Con il tempo arriva anche la stanchezza, che non viaggia mai da sola, ma si accompagna con il senso di solitudine e di abbandono che lo Stato, nella sua vile indifferenza, sa sempre regalare.

Tutti gli alberi, dai più piccoli ai più maestosi, proteggono sempre le proprie foglie, scambiano linfa vitale. Per questo credo che nella vita sopravvivere alla morte dei figli sia un dolore probabilmente indescrivibile, allora posso solo immaginare quanta fatica e quale sforzo sia svegliarsi ogni mattina, rimettere insieme i pezzi della mente e del cuore e avere la forza e la dignità per continuare a camminare controvento, cercare una verità che forze più potenti provano senza ritegno a insabbiare e occultare. Luciana e Giorgio l’hanno fatto per anni lunghissimi. Giorgio si è fermato prima: a volte il cuore e il corpo non ascoltano nessuno e decidono da soli, e arriva il giorno che le energie finiscono e dicono basta per sempre.

Giorgio Alpi in un’intervista disse che “c’è un filo rosso che lega e percorre le stragi di questo paese e il duplice assassinio di Mogadiscio, giustizia e verità sono un diritto per chi è stato colpito e un dovere per chi ha responsabilità pubbliche”. La storia del nostro Paese ci racconta che alla fine resta solo il diritto per chi è stato colpito, mentre per chi ha responsabilità pubbliche esistono mille scorciatoie, mille nascondigli e mille coperture politiche. Tutto questo ha un nome: complicità, o connivenza.

Dopo la morte di Giorgio, Luciana ha raccolto quello che restava delle sue forze e ha continuato ad andare avanti, anche per lui. Sono stati otto anni difficili, una donna coraggiosa e lo Stato, una davanti all’altro: da una parte la dignità e il coraggio di una madre, dall’altra il muro di gomma e le bugie delle istituzioni. Otto anni che non hanno aperto crepe nel muro di gomma ma che hanno però evidenziato, una volta di più, il velo delle ipocrisie e delle omissioni che fin dal primo momento hanno avvolto la morte di Ilaria. Luciana lo aveva capito subito, fin da quando il referto dell’esame autoptico sparì dai documenti ufficiali per comparire in seguito e per incanto tra le carte di un trafficante internazionale di armi.

Poi la somma delle bugie e dei depistaggi, fino alle conclusioni delle Commissioni parlamentari d’inchiesta e alle parole infami e vergognose dell’avvocato Taormina. Adesso anche Luciana ha chiuso il sipario. O forse no, niente sipario e l’ultimo atto non è ancora scritto, forse c’è ancora il tempo per aggiungere qualche riga. Quel tempo lo abbiamo noi e dobbiamo usarlo per scrivere quelle righe che, se non serviranno per arrivare alla verità su Ilaria, potranno servire a raccontare chi era Ilaria. Potranno servire a smuovere qualche coscienza, a sollevare qualche velo, a denunciare le complicità e le connivenze che sporcano una volta ancora la storia di questo Paese. Potranno servire a comprendere quanto sia importante “essere lì, per capire, per conoscere, per raccogliere una testimonianza e raccontarla. Scavare in profondità, qualche volta trovando quello che non si dovrebbe trovare”.

Un anno fa, mese più mese meno, ho partecipato ad un incontro pubblico con un giornalista famoso e affermato. Accanto a me un prezioso amico molto più giovane di me e da cui ho imparato molto, un giornalista pubblicista che Pippo Fava sarebbe stato orgoglioso di avere fra i suoi “carusi”. A una mia domanda, il giornalista famoso e affermato mi disse che quando si ha una certa età bisogna smettere di comportarsi come degli “adolescenti sognatori”. Quella risposta al momento fu un pugno nello stomaco, ma al tempo stesso mi ha fatto sentire tutto l’orgoglio di sentirmi ancora un “adolescente sognatore”.

Userò quel tempo e scriverò le righe che sarò capace di scrivere per raccontare chi era Ilaria Alpi a chi vorrà leggerle, perché è vero: “Non c’è nulla che eguagli l’andare sul posto. Un pezzo è diverso quando lo vivi, che sia a Milano o in Afghanistan. Il mestiere di giornalista va fatto così” . Ilaria Alpi l’ha saputo fare, ma non potrà essere lì un’altra volta. Adesso da qualche parte ritroverà la sua famiglia, Giorgio e Luciana sapranno finalmente tutta la verità senza depistaggi e connivenze, senza un volgare avvocato che come presidente della Commissione Parlamentare d’Inchiesta racconta, davanti ad un microfono, di una donna di trentatré anni morta mentre era in vacanza. E lei potrà riabbracciare due genitori che hanno cercato quella verità, soli contro tutti.

“Con il cuore pieno di amarezza, come cittadina e come madre, ho dovuto assistere alla prova di incapacità data, senza vergogna, per ben ventitré anni dalla Giustizia italiana e dai suoi responsabili, davanti alla spietata esecuzione di mia figlia Ilaria e del suo collega Miran Hrovatin. Al dolore si è aggiunta l’umiliazione di formali ossequi da parte di chi ha operato sistematicamente per occultare la verità e i proventi di traffici illeciti. Da ultimo, dopo la sentenza della Corte d’Appello di Perugia mi ero illusa che i nuovi elementi di prova inducessero la procura della Repubblica ad agire tempestivamente per evitare nuovi depistaggi e occultamenti” (leggi qui).

Maurizio Anelli (Sonda.life) -ilmegafono.org