C’erano una volta le baby pensioni. Ci si ritirava da lavoro con 14 anni 6 mesi e un giorno (se dipendenti statali). A dirlo a un giovane occupato oggi, sembrerebbe di prenderlo in giro. In relativamente pochi anni (1973 l’anno in cui furono introdotte le baby pensioni), si è passati dal pensionamento precoce alla pensione a 67 anni. Nel mezzo ne sono successe di tutti i colori, compresa la caduta della prima Repubblica, la crisi a cavallo tra anni zero e dieci e lo stravolgimento del mondo come lo si conosceva. Ma il tema, delicato e al contempo trattato con l’accetta, non perde mai di interesse. Come il tempo atmosferico e la sicurezza percepita, anch’esso è sulla bocca di tutti.

Il tema scalda gli animi e il dibattito è forte, a maggior ragione in un Paese sempre più vecchio, sempre più povero e, in prospettiva, sempre più povero e pensionato. A rinfocolare dibattiti e polemiche contribuisce la Legge Fornero, che adegua automaticamente l’età pensionabile alla speranza di vita e, in tempi di approvazione del bilancio statale per l’anno prossimo, diventa caldissimo. Ciò di cui sentiamo parlare è tutto ancora da discutere. Va precisato che siamo nella classica fase del consueto bailamme: indiscrezioni, previsioni, rimpalli di responsabilità, linee.

Di sicuro, come sempre, c’è ben poco se non la volontà, da parte di tutto il ceto politico, di evitare (in ottica elezioni) qualsiasi tipo di boomerang contingente ed elettorale, considerato soprattutto che l’elettorato è proprio quello più interessato. Però occorrerebbe uno sguardo lungo quando si parla di pensioni, dovrebbe essere naturale. Diverse le domande, diverse da quelle elettorali, a cui rispondere e a cui nessuno sembra interessato: cosa succede se gli italiani vanno in pensione più tardi? Cosa succede se l’età pensionabile si allunga e il lavoro per i giovani è precario? Cosa succede se il mondo del lavoro è pieno di persone sempre più anziane? Quali sono i problemi per la sicurezza dei lavoratori? Quali effetti possono avere sulla salute dei lavoratori i lavori di ufficio, i computer, il cellulare?

Certo, sembrano banalità. In fondo il problema pensionistico è percepito come tale solo dai diretti interessati. Eppure quelli che dovrebbero interessarsene sono i più giovani, visto che si parla del loro (parola abusata) futuro. Ma come si fa a pensare a un futuro, al terzo stage a 500 euro al mese e con un affitto da pagare? Questo cambio di prospettiva è evidentemente impossibile. In un mondo dove i sindacati sono stati esclusi dalla contrattazione, sono rimasti agli operai perdendosi una generazione di nuovi proletari, aspettarsi che un giovane oggi pensi a diritti, futuro, rispetto o altre amenità del passato è utopia.

Ma questo non è l’unico problema. Le corporazioni e i mille interessi privati contribuiscono a complicare la vicenda. Finisce quindi che la normativa si ingarbuglia e la confusione diventa inestricabile nel consueto tentativo di mettere una toppa a un problema più grande. Si crea quindi quel mondo ingarbugliato, artefatto, inspiegabile e illogico che caratterizza spesso i nostri interventi normativi. Il problema, in realtà, è strutturale. Dopo decenni di concessioni possiamo anche capire la necessità contingente di una stretta sulle pensioni. Ma non si può prescindere da un lavoro attento e parallelo sull’occupazione. Che non può ridursi al palliativo dei contratti allucinanti effettivamente applicati, agli interminabili stage e alle ennesime toppe.

In chiusura, bisogna sottolineare che sicuramente sarebbe molto piacevole se invece di pensione si parlasse di lavoro. Possiamo solo registrare che la retorica intorno al tema pensionistico è tipica di un Paese a fine corsa, dove la speranza è già morta. Non c’è nessun futuro per un Paese che consente a una generazione di arrivare senza alcuna garanzia ai 30 anni, senza pensione ai 70. Non faranno famiglia, non avranno figli, non ci saranno giovani e finiremo felici, sempre più vecchi e sempre più pensionati.

Penna Bianca -ilmegafono.org