La Storia non può avere paura della verità. Anzi, senza verità non può esserci Storia, ma soltanto una sua rappresentazione parziale. La storia italiana più recente è ancora un tema caldo, che accende gli animi, riapre ferite, ripropone vicende controverse e rimette in campo fronti schierati, come se il tempo non fosse mai passato e i conti fossero ancora aperti. Sia chiaro, il racconto storiografico in Italia è stato complesso e purtroppo si è prestato anche a omissioni che a volte si sono ritorte contro la verità ufficiale, non rimettendola generalmente in discussione, ma ridando vigore e voce a chi tendeva ad approfittarne per avanzare tesi revisioniste che ribaltassero i fatti e riassegnassero indebitamente il peso delle responsabilità.

In queste settimane lo scontro storico si è nuovamente acceso attorno al nome e alla vicenda di Giuseppina Ghersi. Una vicenda piena di lacune, narrazioni contraddittorie, fonti non verificate, falsità storiche. Quel che si sa con certezza è solo che Giuseppina Ghersi aveva tredici anni e che venne uccisa barbaramente, dopo essere stata pestata. Non si sa se subì lo stupro o meno, non risultano notizie certe in tal senso, ma ciò non sminuisce comunque la tragicità del destino di una ragazzina vittima di una violenza inaudita da parte di un gruppo di partigiani, nel savonese. Il caso Ghersi è qualcosa che si ripete da molti anni in provincia di Savona, sollevando puntualmente polemiche.

C’è un mondo, ancora oggi legato al pensiero fascista, che usa questa ragazza, la sua tragica storia e fonti non oggettive più per fini politici che per un impeto di pietà o un desiderio di commemorazione. Ed è il vizio ricorrente di una destra che non riesce a disancorarsi dall’ossessione di ricostruirsi un passato diverso da quello crudele e orribile che ha insanguinato Italia ed Europa. Tuttavia, questo tentativo non giustifica comunque certe reazioni a sinistra, dove c’è stato chi ha preferito sottolineare che la Ghersi fosse una fascista e che avesse minacciato, vessato e denunciato partigiani o gente che proteggeva oppositori antifascisti. Altri ancora hanno aggiunto, come spesso accade, che a quel tempo certe violenze, visto il clima di guerra civile, fossero comprensibili e così via. Tutte parole che alla fine vanno ad alimentare un ragionamento molto diffuso, ossia la colpa della vittima e la “comprensione” per il carnefice.

Un ragionamento inaccettabile, perché l’orrore, la crudeltà gratuita sono ingiustificabili. È vero che in un clima di guerra civile e di contrapposizione violentissima si possa arrivare a uccidere un nemico o a punire coloro i quali hanno tradito, ma la ferocia contro una ragazzina di quella età, qualsiasi fosse la sua colpa, non ha scusanti. A maggior ragione se la valutazione di un fatto avviene oltre settant’anni dopo. Al contempo, da destra, sul caso Ghersi si sta nuovamente giocando una battaglia politica (altro che memoria) piena di strumentalizzazioni e falsi storici, come la diffusione di dettagli inesistenti o di una orribile foto che ritrae una ragazza, con una M sul volto e le mani legate, circondata da partigiani, che i falsificatori del web indicano essere Giuseppina Ghersi, nonostante sia ormai dimostrato che non si tratti di lei.

Ad ogni modo, al netto di tutte le menzogne, le strumentalizzazioni politiche e le verità o non verità storiche, questa vicenda permette di fare un ragionamento e di farlo a sinistra, perché della destra poco mi importa. La destra regredisce da sola e non trovo ragione di occuparmi del suo destino, ma a sinistra credo sia necessario ragionare ancora sulla maniera di rapportarsi al periodo della Resistenza e alla storia in generale. Nel leggere il passato ci vogliono verità e distacco. Contestare i falsi va bene, difendere una pagina nobile della nostra storia va benissimo, ma nel farlo non bisogna negare tutto il resto né cedere a semplificazioni odiose.

Non bisogna negare gli eccessi, come furono le vendette private che alcuni gruppi perpetrarono sfruttando la Resistenza. O i massacri politici, come l’eccidio di Porzus per citarne uno. Che peraltro, va ricordato (soprattutto a chi a destra finge di non saperlo), sono stati spesso oggetto di processi e condanne. La Resistenza è stato un grande, drammatico e fondamentale momento storico, rappresenta le radici più profonde della nostra democrazia, è un patrimonio che va custodito, difeso, con la memoria e con il rifiuto di quei germi revisionisti che sono passati da riletture faziose della storia, da progetti di legge di ignobile equiparazione fra i morti partigiani e quelli di Salò, da iniziative vergognose come quella dell’assessore milanese Rozza che ha onorato istituzionalmente la memoria dei repubblichini.

Tutto ciò, insieme ai crescenti rigurgiti fascisti, va combattuto, ma per farlo non bisogna avere paura della verità. È molto intelligente, per tale ragione, quello che afferma l’Anpi Nazionale quando condanna fermamente gli atti di violenza compiuti dopo la Liberazione, ribadendo però giustamente che quei singoli fatti, accaduti nonostante il divieto di ritorsioni e violenze allora imposto dal CLN, non possono intaccare nel suo insieme la Resistenza e il movimento partigiano, che hanno lottato per conquistare libertà, pace e democrazia, dopo anni di dittatura, guerra e orrore.

A sinistra, tra partiti e militanti, i commenti purtroppo sono stati di altro tenore. Giuseppina Ghersi è diventata di colpo semplicemente una fascista, una spia, un nome oggetto di scontro politico, dimenticando che prima di tutto era una ragazzina di appena 13 anni, vittima due volte: della propaganda fascista che condusse a morte tantissimi ragazzini e della inaccettabile violenza vendicativa di alcuni gruppi di vincitori. Violenza che poteva essere evitata, controllata, contenuta. Perché la guerra è orribile, è vero, ma anche in guerra ci sono delle regole e non vale a nulla dire che gli altri hanno fatto peggio, dal momento che ci si è sempre sentiti, a ragione, migliori di loro.

Ammettere il sangue anche dei vinti e l’orrore di alcune parti dei vincitori non cambia la storia e anzi indebolisce le velleità revisioniste di chi è pronto a individuare e usare certi fatti per sfidare quella storia e la sua immagine nobile. Se il primo libro di Pansa, ad esempio, fosse stato affrontato con intelligenza, facendo notare la debolezza delle fonti, senza oltraggi o aggressioni liberticide, forse esso avrebbe avuto meno impatto e si sarebbero evitate le successive strumentali e intellettualmente disoneste uscite dell’autore che si è poi spinto a generalizzazioni deliranti, dimenticando la generosità, l’eroismo e l’onestà della quasi totalità del movimento partigiano.

Per questo non bisogna temere di condannare certi fatti. In passato si è sbagliato già altre volte, come ad esempio quando per anni si è negato vigliaccamente (e il Pci di Togliatti e una certa storiografia ne sono responsabili) l’orribile eccidio delle Foibe. Che oggi, a causa di quel silenzio colpevole, viene utilizzato da destra per macchiare la coscienza di un’intera parte politica, senza sfumature. Di questi errori bisogna prendere finalmente coscienza, non ripetendoli, affrontando certi crimini in maniera oggettiva e serena, senza assegnare alcun tipo di giustificazione, né storica né ideologica.

Ciò sarebbe generalmente utile a sinistra, soprattutto a qualche sua parte che, nel commentare la storia passata, farebbe bene a recuperare un po’ di spirito critico e ad abbattere, come chiedeva tanti anni fa Pasolini (che a Porzus perse un fratello), un po’ di falsi moralismi e di arrugginite barriere ideologiche. Perché la violenza non può avere confini logici. La violenza rimane violenza, chiunque sia a compierla e in qualsiasi momento la si compia. La storia non scolorisce la crudeltà, né cancella la verità. Che va difesa sempre, a qualsiasi costo, anche quando risulta sconveniente.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org