Intervista esclusiva al Procuratore Nazionale Antimafia, Franco Roberti, che racconta come è cambiato il rapporto criminalità-aziende e spiega come si può liberare l’economia soffocata.

“Desertificazione industriale, disoccupazione incontrollabile, sottosviluppo e diseguaglianze permanenti”. Questo è il quadro che il Rapporto Svimez tratteggia del Mezzogiorno. Un quadro rispetto al quale, lei non si stanca mai di ribadire che sono le mafie la causa principale, e che bisogna usare gli strumenti giusti per liberare il Sud da questa cappa.

Ne sono assolutamente convinto. Il contrasto alla criminalità organizzata, e per estensione all’economia criminale, è il presupposto fondamentale per avviare lo sviluppo reale e concreto delle imprese e dell’occupazione. La presenza delle mafie condiziona pesantemente l’economia dei territori dove operano. E, come emerge in maniera evidente dalla Relazione 2017 della Procura Nazionale Antimafia che abbiamo presentato di recente, oggi mafia sempre più spesso vuol dire corruzione. Perché è questo ormai lo strumento privilegiato dei clan: corrompere per ottenere informazioni riservate, ottenere documenti falsi, pilotare e accaparrarsi gli appalti, gestire il tessuto economico in regime di concorrenza sleale rispetto alle imprese sane, riciclare capitali illeciti. Ecco allora che la lotta alla corruzione diventa la chiave di volta per assicurare l’avvio di un percorso virtuoso che può portare a uno sviluppo vero del Mezzogiorno.

Il nostro Paese in effetti, con una corruzione che pesa 60 miliardi di euro annui, continua ad avere questo triste primato in Europa. Eppure le norme anti-corruzione ci sono.

La corruzione ostacola la competitività e frena sviluppo e occupazione perché altera la libera concorrenza. È da considerarsi ormai un vero e proprio “fenomeno di sistema”, dilagato perché per troppo tempo è stato tollerato. Oggi le norme, da sole, non bastano se poi non vengono correttamente applicate. Ci vuole anche un’organizzazione idonea a farle funzionare. Ci vogliono organismi di polizia giudiziaria efficienti e specializzati e, a completamento del quadro anticorruzione, bisogna prevedere una forma di premialità per chi collabora con la giustizia su fatti corruttivi. Queste stesse persone che collaborano, inoltre, vanno adeguatamente protette. Personalmente, ritengo necessaria anche la possibilità di operare con agenti sotto copertura. Come Procura Antimafia abbiamo suggerito al legislatore di prevedere anche, all’interno dell’articolo 416 bis sulle associazioni a delinquere di stampo mafioso, un’aggravante di pena quando viene accertato che le mafie conseguono appalti attraverso il metodo corruttivo. La corruzione è, nella gran parte dei casi, espressione di organizzazioni criminali, mafiose e non. Per cui, per affrontarla, oltre al rafforzamento del quadro normativo, ci vuole metodo e organizzazione.

L’Autorità Nazionale Anti Corruzione da sola non basta, per ciò che concerne la prevenzione?

L’Anac è un ente importante, e, nell’ambito del Piano Nazionale Anti Corruzione, sta facendo bene il suo lavoro. Ma si occupa di casi che vengono portati alla sua attenzione, non ha poteri investigativi, come quelli dell’Autorità Giudiziaria. E in ambito corruttivo, l’attività investigativa è fondamentale, per cui questo tipo di mansione andrebbe potenziata.

E sul piano delle norme invece? Servirebbero anche le white list?

Certamente. Per arginare la corruzione, bisogna rafforzare anche i protocolli di legalità, come è stato fatto per la prevenzione delle infiltrazioni mafiose negli appalti pubblici. Come Procura Nazionale, abbiamo dato il nostro contributo sulla prevenzione negli appalti più importanti, dalla bonifica della “terra dei fuochi” in Campania alla ricostruzione post-terremoto in Italia Centrale. Ci vorrebbero regole e griglie d’accesso rigorose alle white list anche nell’ambito corruttivo. Se vuoi lavorare con la Pubblica Amministrazione, devi denunciare il politico che ti chiede la tangente. Se paghi, vieni espulso dalle associazioni di categoria e non puoi più partecipare ai bandi ad evidenza pubblica.

Sono 30 anni ormai che lei si occupa di appalti, affari e criminalità organizzata: dal “modello tavolino” in Sicilia, al cosidetto “Cap” in Campania, fino al comune denominatore massonico in Calabria. Cos’è cambiato in tutto questo tempo?

Il viluppo tra mafie, imprese e malapolitica, in Italia, come già detto, è un fenomeno assolutamente ancora presente nell’economia. Ma c’è stata un’evoluzione: oggi la mafia si infiltra nel mondo degli appalti attraverso la corruzione e non più con la forza dell’intimidazione e della violenza. Rispetto al “modello tavolino” negli anni ’80 e al rapporto Cap (“Camorra, Affari, Politica”) negli anni ’90, la novità è sostanzialmente questa. La mafia non spara, corrompe. Oggi i clan esercitano una presenza di controllo, garanzia e rispetto dei patti corruttivi: gli accertamenti giudiziari lo dimostrano. Nell’ultimo anno, ad esempio, è venuto fuori in maniera evidente nel campo dello smaltimento rifiuti. La presenza, cioè, di soggetti mafiosi che, nella veste di corruttori e non di intimidatori, mettono insieme gli attori che, dal “modello tavolino” e il “rapporto Cap” a oggi, sono sempre gli stessi, ovvero: politici, funzionari, imprenditori. Ci sono state molte indagini significative in tal senso. Una per tutte quella della Procura Distrettuale di Catania sul “sistema Paratore” e lo smaltimento illegale di rifiuti, che vede imputati mafiosi e non mafiosi, accusati di associazione mafiosa e corruzione.

Finora abbiamo parlato di economia sommersa. E quella soffocata, invece? Nel suo libro “Il Contrario della Paura” scrive che il vero danno delle mafie sta in ciò che soffocano ancora più che in ciò che provocano. Ma aggiunge pure che al Sud l’impresa sana esiste. Perché, allora, non riesce a fare massa critica?

Su ciò che le mafie soffocano sul piano economico, ci sono dati statistici abbastanza eloquenti. Basti pensare all’incidenza della presenza mafiosa sul Pil: meno 16,5% e meno 17,5% in Puglia e Basilicata negli ultimi 30 anni, per colpa della criminalità organizzata. Per converso, l’impresa sana, quella corretta, che non fa ricorso al metodo corruttivo, ha difficoltà a operare e rischia di uscire dal mercato, a tutto vantaggio di chi ricorre alla corruzione sistematica. In un contesto di corruzione generalizzata, per l’impresa sana che rispetta le condizioni di legalità, sopravvivere è molto difficile. Ecco perché, in particolare al Sud, le realtà virtuose sono poche. Per salvare l’impresa sana, è indispensabile agire contro quelle collegate alle organizzazioni mafiose. Intervenendo sull’economia malata, si sanano le imprese pulite e si sana l’economia dell’intero Paese.

Il brodo di coltura: con la crisi che porta la disoccupazione giovanile al Sud a toccare il 42,4%, 6 giovani su 10 sarebbero disposti a lavorare per un impresa in odore, pur di lavorare.

Sono i dati di un’indagine di coldiretti. C’è poco da meravigliarsi. Le mafie hanno sempre approfittato delle condizioni di disagio, delle disuguaglianze tra i troppo ricchi e i troppo poveri. Così usano i troppo ricchi quelli che spesso almeno sono disonesti, e i troppo poveri, i disperati che hanno bisogno. I forti e i deboli. È un dato allarmante ma non sconvolgente.

Il nodo focale resta sempre quello: la dissuasione all’intrapresa. I problemi ambientali scoraggiano lo sviluppo e gli investimenti economici, e qualsiasi iniziativa imprenditoriale sui territori del Mezzogiorno. Dove c’è mafia, peraltro, c’è meno accesso al credito, e le mafie possono farsi forti con l’usura, sostituendosi alle banche.

In realtà non sarebbe nemmeno corretto parlare di usura ma esercizio abusivo del credito. Ci sono soggetti mafiosi che prestano danaro a tasso legale, cioè si fanno banca, ovviamente senza avere la licenza per farlo, erogando credito a tasso concorrenziale con quello delle banche, ma con la certezza di riuscire a recuperare il loro credito.

Oggi i canali di riciclaggio che vie seguono?

Ci sono mille possibilità per le organizzazioni criminali di riciclare i loro introiti illeciti. In tutte le attività legali, le mafie vedono occasione per investire i loro capitali. La crisi bancaria, ad esempio, ha rafforzato l’economia criminale, favorendo il ricorso e l’erogazione del credito mafioso. I soggetti economici sono costretti a rivolgersi a questi canali alternativi, l’imprenditore deve sopravvivere, se non riesce a farlo con le banche si rivolge al credito mafioso.

Non sono confluiti anche nella finanza innovativa (fondi d’investimento; private equity; venture capital) i soldi delle organizzazioni criminali?

L’esperienza mia personale e le indagini dimostrano chiaramente l’interesse delle organizzazioni mafiose verso gli investimenti nella cosiddetta new economy. Pensi soltanto alle indagini sul fotovoltaico, sulle pale eoliche, sulle energie rinnovabili, tutti settori che destano l’interesse dei clan dal momento che sono l’economia del futuro. Le mafie sono assolutamente al passo coi tempi.

Droga, primo canale d’introito delle mafie: su 30 miliardi che muovono ogni anno ne investono 20 sulle imprese legali. Come si fa a bloccare a monte questo fenomeno ed evitare l’aggressione dell’economia legale?

La lotta alla droga nel nostro paese produce ogni anno sequestri e confische notevoli. Il problema è che il traffico di stupefacenti è un fenomeno transnazionale e non si riesce ad aggirarlo. Noi di solito interveniamo a sequestrare la droga che si riesce a intercettare e poi, a valle, sequestriamo i profitti dei trafficanti di droga. Quello che non si riesce a individuare e bloccare invece, sono le fonti di finanziamento del traffico di droga. Le indagini non sono ritagliate su questo tipo di obiettivo investigativo. Bisognerebbe andare a sequestrare i flussi finanziari prima ancora che diventino transazioni finalizzate a movimentare la droga. Sono spesso operazioni estero su estero che non riusciamo ad intercettare. Il danaro che muove la droga, intendo dire. Sequestrando la droga noi riusciamo a bloccare la merce prima che arrivi sul mercato ma non fermiamo il proseguire dei traffici. Mi rendo conto che si tratterebbe di un’inversione di tendenza dal punto di vista investigativo e di indagini che forse richiederebbero anni. Non serve una superprocura internazionale. Non è questa la questione. Si tratta di modellare le indagini su target diversi: bloccare cioè i traffici finanziari, che si muovono in maniera diversa benché parallela ai traffici di stupefacenti, e spesso guidati da soggetti che sono diversi da quelli che trafficano la droga. Noi ci limitiamo a indagare sui trafficanti ma non indaghiamo sufficientemente sulle società che muovono i flussi finanziari.

Indagini Istat stimano l’incidenza dell’economia criminale al 16-17% del PIL, cioè introiti tra i 255 e i 275 milioni di euro. Ma non è un valore sottostimato?

Guardi, i dati hanno il valore che hanno, puramente orientativo. Diciamo che sono cifre oscillanti, ma ti danno l’idea della dimensione del fenomeno.

Al Sud, in molte aree, non ci sono servizi. Scuole, rete idrica, strade. Succedeva un secolo fa e succede oggi. È questo il vero problema, l’assenza dello Stato? È questo che rende impossibile la sconfitta delle mafie?

Lo Stato, negli ultimi 20 anni, ha portato un’azione di contrasto alle organizzazioni criminali, molto efficace. Efficace in termini di risultati, voglio dire: confische, condanne, sequestri di beni. Ma non ha ancora vinto la partita con le mafie. Perché non ha ancora posto le premesse affinché i fenomeni mafiosi non possano più riprodursi. Non ha rioccupato quegli spazi sociali, politici, economici che lasciati vuoti in passato, sono stati occupati dalle organizzazioni criminali. A Casal di Principe, in 90 anni, dai tempi dei Mazzoni in epoca mussoliniana si è passati direttamente al clan dei casalesi. Lo spazio di governo non è stato rioccupato dopo l’intervento dello Stato per eliminare i Mazzoni, perché, dopo, lo Stato non ha provveduto a costruire case e scuole e a promuovere l’economia legale. E di regole di controllo per prevenire oltre che per reprimere i fenomeni mafiosi.

Oggi a Casal di Principe, paradossalmente, lo Stato ha ottenuto grandi risultati in termini di contrasto, ma non ha ancora vinto contro i Casalesi, perché ancora ci sono condizioni perché i Casalesi possano ritornare. Quali sono le condizioni perché essi non possano più tornare? Disoccupazione, sottosviluppo, mancanza di infrastrutture, mancanza di economia legale. Giovanni Falcone diceva: la mafia è un fenomeno umano e come tale, è destinato a finire, ma aggiungeva che bisogna accorgersi oggi che è un fenomeno grave, pericoloso e pervasivo, per vincere la guerra bisogna mettere in campo le energie migliori e non solo per prevenire i fenomeni mafiosi ma per evitare il possibile riprodursi del fenomeno.

Quali politiche pubbliche per ridare speranza a giovani e imprese in un Sud altrimenti condannato alla morsa stritolante delle mafie?

La ricetta è promuovere gli investimenti. Assicurare le condizioni prioritarie di legalità e di sicurezza. Dare condizioni efficienti. Così si promuovono gli investimenti. Ma questa ricetta è stata ben compresa, la consapevolezza c’è, il problema è dare attuazione. La ricetta è attirare investimenti, italiani e stranieri, assicurando condizioni di sicurezza efficienti e di legalità funzionanti: tribunali che funzionano, forze di polizia che funzionano, e soprattutto non far venire mai meno ai soggetti istituzionali preposti ad assicurare un quadro di legalità, le risorse, le necessità, ciò che serve per un’azione efficiente. Ad esempio, è stato diramato dal ministero della Giustizia, una circolare che individua, a seconda dei distretti, nel nostro Paese, aree di grande efficienza e aree di grande inefficienza, per quanto riguarda la giustizia. E contrariamente a quello che si potrebbe pensare, il divario tra Nord e Sud non si coglie così nettamente. Ci sono aree di efficienza al sud e aree di inefficienza al Nord. Per cui bisogna intervenire per compensare. Lo stesso dicasi per le forze dell’ordine. I presupposti fondamentali per rilanciare il Sud sono favorire le condizioni di legalità e sicurezza, giustizia e sicurezza, non bisogna mai slegare questi concetti.

Francesco Condoluci – su Economy, www.economymag.it

(Sonda.life ilmegafono.org)