11 Settembre. Dovrebbe essere una data come un’altra in qualunque calendario, ma non è più così. La storia ha caricato questa data di significati e di emozioni violente, trasformandola in un sudario che avvolge i volti di mille tragedie. In questi giorni si ricorda l’America sotto attacco, gli aerei che violentarono il World Trade Center di New York e cambiarono il volto di una città e del mondo. Quegli aerei sconvolsero una volta ancora, una volta di più, tutti gli equilibri mondiali da sempre fondati sull’ipocrisia, sul denaro e sul potere. E su quell’11 settembre alle tante domande sono sempre state date le risposte più scontate.

Nessuna risposta vera su chi avesse allevato il ragno e tessuto la tela, sui legami sporchi di finanza e di potere fra la famiglia Bush e la famiglia Laden, nessuna risposta sui finanziamenti dati all’integralismo talebano e al loro addestramento militare. La ragion di stato e la politica internazionale hanno scelto di non entrare in quella palude, perché solo quelle risposte scontate erano quelle di cui una parte del mondo aveva bisogno per continuare il suo gioco perverso, fatto di guerre e di potere. Ed è come se le vittime del World Trade Center di New York fossero morte due volte.

Ma c’è un altro 11 settembre. Quasi dimenticato dal resto del mondo, e di cui sembra non si voglia più parlare. È un 11 settembre che invece dovrebbe essere ricordato e di cui si dovrebbe ancora parlare molto, perché quell’11 settembre ha ucciso il sogno democratico di un popolo, cancellando intere generazioni alle quali nessuno potrà mai più restituire la gioventù e la bellezza dei vent’anni. Ha tagliato affetti e legami, ha schiacciato sentimenti e amori. Ha separato famiglie, amici. Ha seminato morte e terrore. Quell’11 settembre ha scavato un solco che è diventato una strada di lacrime e sangue e, su quella strada, l’intera America Latina si è smarrita per decenni.

È l’11 settembre del 1973, l’inverno cileno sta per finire e la primavera che bussa alla porta non ha il vestito allegro e colorato che dovrebbe avere. Ha l’uniforme tetra e vigliacca di un generale dell’esercito che si presenta con il rumore assassino degli aerei da guerra che bombardano senza sosta “La Moneda”, il Palazzo Presidenziale di Santiago del Cile. Dentro quel palazzo Salvador Allende, eletto democraticamente nel 1970, saluta per l’ultima volta il suo Popolo da una radio (ascolta qui): radio Magallanes, la radio del Partito comunista cileno. Era l’unica radio che in quel mattino di fine inverno non aveva ancora interrotto le comunicazioni. Il Cile era stato isolato e ammutolito, tutte le stazioni radio erano state chiuse, ridotte al silenzio.

Il Cile non sentirà mai più la voce di Salvador Allende, la sua vita finirà quel giorno dentro il Palazzo della Moneda. Poche ore, e il sogno di “Unidad Popular” morirà insieme a Salvador Allende. Da quel giorno il Cile conoscerà solo il ghigno e il regime fascista del generale Augusto Pinochet, comandante dell’esercito che Allende stesso aveva nominato il 23 agosto 1973, convinto della lealtà di Pinochet, e quel regime durerà per quindici terribili e lunghissimi anni, fino al 1988. La giunta militare che assunse il potere dopo l’11 settembre 1973 devastò il Cile dal punto di vista umano, democratico, civile ed economico. Lo stadio di Santiago, l’Estadio Nacional de Chile, diventò il simbolo di quella stagione di morte, violenze e torture, di stupri e di diritti umani violati. In quello stadio venne uccisa la voce libera e coraggiosa di Victor Jara.

Le scelte economiche, ispirate ai “Chicago Boys” di Milton Friedman e appoggiate dalla finanza e dalle multinazionali, distrussero il Paese anche dal punto di vista economico e dello sviluppo.

Ma quella giunta militare e quel regime fascista non nacquero all’improvviso la mattina dell’ 11 settembre del 1973. No… quel colpo di stato fu preparato con cura negli Stati Uniti in ogni dettaglio, fin dal primo giorno in cui venne eletto democraticamente Salvador Allende. Si tastò il terreno poco alla volta, si crearono le condizioni economiche e sociali per distruggere la politica di Allende. Fu una cooperazione perfetta fra la finanza e la politica: da una parte le manovre economiche per destabilizzare il Cile e, contemporaneamente, l’invio di consiglieri e istruttori militari, gli specialisti. Le oligarchie economiche e le multinazionali da una lato, la CIA e i militari dall’altro. La regia affidata alla mente di un uomo come Henry Kissinger, consigliere per la sicurezza nazionale nonché segretario di stato.

In quegli anni Richard Nixon era il Presidente USA. “Non vedo perché dovremmo restare con le mani in mano a guardare mentre un Paese diventa comunista a causa dell’irresponsabilità del suo popolo. La questione è troppo importante perché gli elettori cileni possano essere lasciati a decidere da soli”. Queste parole furono pronunciate da Henry Kissinger a proposito della vittoria di Salvador Allende (leggi qui).

Henry Kissinger, già uomo di primo piano durante la guerra del Vietnam, e che nel corso di un’intervista a Oriana Fallaci nel 1974 non ebbe nessuna difficoltà ad affermare che “Ciò che m’interessa è quello che si può fare con il potere ”. Eppure, nel 1973, ad Henry Kissinger fu assegnato il Premio Nobel per la pace.

Il ritorno alla democrazia in Cile è stato un cammino lento e faticoso. Il generale Augusto Pinochet morirà nel suo letto il 10 dicembre del 2006 all’età di novantuno anni e fino all’ultimo dei suoi giorni ebbe protezioni e immunità da parte delle democrazie occidentali. Accusato di genocidio, terrorismo e tortura, riuscì sempre a sottrarsi alla Giustizia. Non rispose mai per nessuno dei suoi crimini. Santiago del Cile, 11 settembre 1973. Quel giorno insieme a Salvador Allende muore il sogno di riscatto di gran parte dell’America Latina. Erano gli anni dell’Operazione Condor, e gli Stati Uniti erano i registi occulti di quel film spaventoso, la cui trama era scritta e pianificata da tempo (leggi qui).

Passeranno solo tre anni e, nel 1976, la notte scenderà anche sull’Argentina. Il mondo conoscerà allora un altro ghigno violento e carnefice, un’altra uniforme, un altro generale: il suo nome era Jorge Rafael Videla Redondo. Il colpo di stato in Argentina scelse una strada diversa da quella cilena: nessun bombardamento della casa presidenziale e niente carri armati sulle piazze e nelle strade. Fu scelto il metodo dell’annientamento scientifico di ogni oppositore, la strada fu quella delle torture e dei voli della morte sull’Oceano. Nessuna fucilazione, nulla che potesse essere visto in diretta televisiva dall’opinione pubblica mondiale. Le persone scomparivano nel nulla: prima le torture e le violenze nelle stanze dell’ESMA, la “Escuela Superior de Mecanica de l’Armada”, e poi un volo nell’Oceano dagli aerei che traghettavano esseri umani dalla vita alla morte.

“Desaparecidos”, il mondo imparò presto questa parola e il suo significato. Decine di migliaia furono i “Desaparecidos” argentini, intere generazioni distrutte per sempre. Alle donne argentine, mamme e nonne, il mondo intero deve riconoscenza e gratitudine per aver sfidato per decenni la giunta militare denunciando la scomparsa di figli e nipoti: sono loro, le “Madri di Plaza de Mayo” il simbolo di una dignità e di un coraggio che nessun dittatore ha mai sconfitto. E, in Argentina come in Cile e come in gran parte dell’America Latina, il ruolo e le responsabilità dei governi e dei servizi segreti di Washington fu fondamentale. Negli ultimi mesi del suo mandato, durante una visita ufficiale in Argentina, il presidente americano Barack Obama promise il suo impegno nel fare chiarezza su quel ruolo. Il tempo e la storia aspettano che questa promessa sia mantenuta.

11 Settembre. Dovrebbe essere una data come un’altra in qualunque calendario, ma non è più così.

Maurizio Anelli (Sonda.life) -ilmegafono.org