“Nella lotta alla mafia, il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità […] Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo” (Paolo Borsellino).

19 luglio 1992, Palermo. Paolo Borsellino è assassinato dalla mafia cinquantasette giorni dopo Giovanni Falcone, come a chiudere un conto aperto da tempo e a ribadire un messaggio che non vuole lasciare alcun dubbio, né allo Stato né ai cittadini onesti. Deve essere chiaro chi comanda, chi detta le regole. Deve essere chiaro che lo Stato è assente e dovrà scendere a patti, trattare con la mafia. E lo Stato è assente e in gran parte malato, corrotto e connivente con la mafia. Da Portella della Ginestra a via D’Amelio, passando per Rocco Chinnici, Ninni Cassarà e Giuseppe Montana, Dalla Chiesa e Giovanni Falcone.

E allora quando parleremo finalmente di questo Stato assente e connivente? Della mafia sappiamo tanto, anche se non ancora tutto. Ma dello Stato, di questo Stato, cosa sappiamo davvero? O meglio, cosa sappiamo che sia stato messo nero su bianco da un tribunale di questo Stato? Che cosa sappiamo di decenni di legami fra i politici di questo Paese e i vertici della mafia, quando parleremo davvero nelle sedi dovute, Parlamento e aule di Tribunale, di tutto questo? Che cosa sappiamo della trattativa che per alcuni è solo “presunta” ma che probabilmente è qualcosa che va oltre il “presunto”?

Quando Paolo Borsellino affermava che “politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo” denunciava qualcosa che molti cittadini hanno sempre pensato e saputo nel proprio intimo, fra rassegnazione rabbia e amarezza. E la smentita era un dovere che spettava allo Stato e alle sue istituzioni: nei fatti concreti e non nella presenza ai funerali di Stato cui ci hanno abituato.

Questa smentita non c’è stata, questo dovere non si è mai manifestato nella storia di questo Stato. Sì è scelto di affidare questa smentita a singoli Uomini degni che, con le loro storie personali, hanno dedicato una vita intera a servire le istituzioni e il Paese e in parte hanno restituito dignità alle istituzioni. Poi però, a uno a uno, sono stati abbandonati al loro destino nel momento cruciale. È sempre difficile stabilire il confine fra la vigliaccheria e la connivenza, ma nella morte annunciata di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino questo confine è facile da individuare perché non esiste.

Nella loro morte, preparata con cura e perciò “annunciata”, la vigliaccheria e la connivenza hanno camminato fianco a fianco: i mille ostacoli che hanno sempre reso difficile il loro cammino, sparsi qua e là sulla loro strada da politici e colleghi corrotti e indegni, il tentativo misero di delegittimare il loro lavoro e la loro credibilità portato avanti da tanti mezzi di informazione: tutto ha contribuito a creare terra bruciata intorno a loro. E quella terra bruciata ha prodotto un incendio devastante per la storia di questo Paese.

Quei giorni della primavera di Palermo avevano davvero portato una speranza nel cuore di molti, soffiava un bel vento in quella primavera o, almeno, così sembrava. Sembrava un vento nuovo che profumava di dignità, di riscossa. Ma i “corvi” stavano già pianificando tutto e l’isolamento in cui Paolo Borsellino fu confinato era un segnale che troppi non hanno saputo cogliere, a cominciare dai grandi organi di informazione. Quel vento era già cambiato, e la morte, anche quella “annunciata”, di Giovanni Falcone era stata un segnale che Paolo Borsellino aveva capito da subito.

Sono tanti i ricordi di Paolo Borsellino, ma uno assume un significato particolare e resterà nel cuore e negli occhi di tutti coloro che hanno amato e stimato l’Uomo e il Giudice: Il 25 giugno 1992, alla Biblioteca Comunale di Palermo, Paolo Borsellino terrà il suo ultimo intervento pubblico. L’occasione è un dibattito organizzato dalla rivista Micromega. Quell’intervento può essere considerato come un testamento e quel discorso, straboccante di umanità, deve essere ricordato come l’ultima denuncia (clicca qui per il video).

È lucido quella sera Paolo Borsellino, come sempre e forse più di sempre. Lucido e amaro, come può esserlo un Uomo che sa di essere arrivato in fondo alla sua strada. Lucido e amaro nel ricordare a tutti come e quanta ragione aveva Antonino Caponnetto nel ricordare come la “morte annunciata” di Giovanni Falcone avesse preso forma anni prima, nel gennaio del 1988, quando Caponnetto stesso, anziano e fisicamente stremato, lascia la magistratura, la Sicilia e si apre la corsa alla sua successione.

Sono “i giorni di Giuda”, come disse Paolo Borsellino con tutta la franchezza e l’integrità morale che lo hanno sempre contraddistinto: “Si aprì la corsa alla successione all’ufficio istruzione al tribunale di Palermo. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli”. Ma sarà altrettanto lucido e amaro nel ricordare “quell’articolo di Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera che bollava me come un professionista dell’antimafia, l’amico Orlando come professionista della politica, dell’antimafia nella politica”.

Che cosa resta, oggi, della storia umana e professionale di Paolo Borsellino? Resta tanto, tantissimo. Resta il ricordo di un Uomo degno e di un Giudice onesto e tenace, capace di essere e rimanere tale in un ambiente che per molti versi si è dimostrato incapace di meritare Uomini di questa statura. Resta il ricordo di un’amicizia profonda e vera che ha legato il suo destino a quello di Giovanni Falcone, una favola che forse questo Paese non ha saputo meritare lasciandoli soli ad affrontare un nemico troppo più forte di loro. Un nemico che sapeva benissimo su quali appoggi poteva contare, contrariamente a loro.

Un nemico che aveva le spalle coperte da connivenze politiche, da interi settori della magistratura e delle istituzioni. Strano, chi doveva proteggere Borsellino e Falcone era in realtà il loro principale ostacolo. Resta, infine, l’esempio di come la dignità umana, l’amore per il proprio lavoro e l’amore per la verità, possano essere l’unica arma capace di smuovere coscienze e far vacillare le montagne. Restano però anche l’amarezza e il rimpianto di aver visto morire Uomini di questo livello senza poter fare nulla per salvarli. Ed è un rimpianto enorme.

Che cosa è cambiato, oggi, dopo la morte di Paolo Borsellino? Difficile capirlo, nel Paese dei Gattopardi cambia tutto per non cambiare nulla. Forse la coscienza civile degli italiani ha fatto qualche passo in avanti, forse si è davvero capito il valore di Uomini come Paolo Borsellino. O forse no, forse “i giorni di Giuda” di cui parlava Paolo Borsellino sono ancora i giorni di questo Paese. E nei giorni di Giuda tutto è da capire, da interpretare e decifrare.

Come la “trattativa” che questo stato ancora nega ma che sembra invece la pagina più nera e più vera dei giorni che seguirono le stragi di Capaci e via D’Amelio. Un giorno, forse, sapremo davvero come sono andate le cose. Fino a quel giorno resta solo la lezione di Borsellino e Falcone. È una lezione che dovremmo studiare ancora a fondo, rileggerla e, a ogni pagina, esserne assolutamente orgogliosi.

Maurizio Anelli (Sonda.life) – ilmegafono.org