La ricordo bene quell’estate del 2001. Era l’11 luglio quando stavo per dare il mio esame di Storia contemporanea all’università. Eravamo in tanti e c’era da aspettare. Così mi trovai seduto accanto a un collega che non conoscevo. Iniziammo a parlare di storia e di attualità. Entrambi studenti lavoratori. Io giovane giornalista locale e lui giovane carabiniere. Figli della stessa generazione, quella che si preparava a Genova e al G8, con il clima di terrore che i giornali costruivano senza ritegno. In quei giorni, infatti, i media parlavano di terrorismo, di minacce per le popolazioni, si disse perfino che Bin Laden (che due mesi dopo, l’11 settembre, avrebbe cambiato la storia del mondo) stesse preparando qualcosa in occasione di quella reunion di potenti della Terra.

Fandonie. Tutte parole scritte per creare tensione, ostilità e sospetto nei confronti dei manifestanti e della loro legittima richiesta di un mondo migliore, senza guerre, equo, libero dalla finanza che stava inquinando l’economia e massacrando lo stato sociale, aperto all’accoglienza e alla solidarietà, attento alla tutela dell’ambiente e a un futuro eco-sostenibile. Un mondo dove non fosse il profitto a prevalere sempre e comunque e dove i diritti, la libertà e la dignità della persona fossero sacri.

La ricordo bene quell’estate del 2001. Era l’11 luglio e io e quel collega ci trovammo a parlare dell’imminente G8. Anzi, fu proprio lui a iniziare. Sembrava avesse voglia di parlarne. Era in servizio a Roma ed era spaventato. Lui, carabiniere semplice, sarebbe dovuto andare, con molta probabilità a Genova. Era stato messo in preallarme. Mi disse che sperava con tutto il cuore di non andarci, perché aveva paura. Una fottuta paura di quello che poteva accadere. E non certo per via di ciò che scrivevano i giornali, ma per come i suoi colleghi si stavano preparando.

Mi raccontò di funzionari esaltati, di corpi speciali in eccesso di fibrillazione, di colleghi fortemente ideologizzati (a destra naturalmente) pronti a far male. Mi riferì frasi pesanti pronunciate da superiori nei confronti dei manifestanti che avrebbero sfilato a Genova. Mi raccontò, con molto sconcerto e pudore, di esercitazioni con mezzi non ammessi, non legali, come alcuni tipi di idranti vietati. Lo ascoltavo, preoccupato, per lui e per quel che sarebbe accaduto a chi avrebbe manifestato. Mi disse che le forze dell’ordine erano pronte a rispondere a qualsiasi provocazione e con una violenza preoccupante. Almeno da quello che lui sentiva e vedeva in caserma.

Poi, ci fu l’esame. Io finii per primo, lo salutai e andai via. Non lo vidi più. Non seppi mai il suo cognome. Tornai a casa a preparare l’ultimo esame estivo, previsto una decina di giorni dopo. In quei giorni, andai a salutare un mio amico e collega universitario che quel pomeriggio sarebbe partito per Genova. Mentre gli giravo degli appunti, accennai di quel racconto del carabiniere, poi mi tuffai sui libri, dimenticando tutto. D’altra parte ero solo un cronista locale, all’epoca, e per inesperienza non pensai al fatto che quella sarebbe stata una notizia. Ma forse non lo pensai perché non avrei mai immaginato una cosa di quelle dimensioni.

Non era la prima volta che si attendevano scontri e ho sempre saputo che dentro le forze dell’ordine quell’atteggiamento “nervoso” fosse abituale in certe occasioni. Confidavo però nei limiti che fino a quel momento non erano stati mai superati. Almeno non come a Genova. Dove vi fu una vera e propria macelleria contro un’intera generazione. Eppure, io mi sento ancora in colpa. Per non esserci stato e per non aver compreso per tempo ciò che sarebbe accaduto. Fu una lezione terribile che mi è rimasta impressa.

Qualche giorno fa, a Milano, alla Fondazione Feltrinelli, ho assistito a un incontro molto interessante proprio sui fatti di Genova. Il titolo della conferenza parlava di una “generazione che ha perso la voce”. Genova, infatti, è stata uno spartiacque. È stata la risposta sanguinaria alle istanze legittime di una generazione, che spesso veniva accusata di essere distratta, superficiale, lontana dall’impegno e dalla preparazione di quella ribelle degli anni ‘60-‘70. Ci dicevano di essere copie sbiadite dei nostri padri, ci accusavano di essere cresciuti nel benessere e tra i jingle e la leggerezza delle tv commerciali. Altre bugie. Etichette, le solite maledette etichette su un mondo, quello giovanile, che da sempre è multiforme, eterogeneo, mai realmente definibile.

Quella generazione, in realtà, era una delle migliori, perché stava vivendo e ha vissuto un momento di passaggio epocale. Ha visto il mondo cambiare, passare dal finto benessere, dal rampantismo e dai fallimenti di un’epoca crollata sul finire degli anni ‘80 al caos e al vuoto degli anni ‘90. Ha vissuto le stragi di mafia, le guerre assurde e le pulizie etniche nel cuore dell’Europa, l’angoscia per gli effetti dei disastri ambientali (vedi Chernobyl), le incertezze sul futuro, sul lavoro, sui diritti. Una generazione capace di sperimentare per prima la globalizzazione delle comunicazioni e di entrare in contatto, pertanto, con realtà che un tempo erano lontane, di vedere immagini, storie, orrori, ingiustizie in tempo reale.

In tutto questo, quella generazione di giovani che avevano un’età compresa tra i 20 e i 30 anni, non si sono smarriti, ma hanno trovato il coraggio e la forza di studiare, confrontarsi, discutere (concretamente e non virtualmente), impegnarsi, anche e soprattutto al di fuori dei partiti che, come i sindacati, cominciavano a perdere la loro capacità di rappresentanza. Hanno trovato la forza di scendere in piazza per esprimere il proprio dissenso di fronte a quel mondo politico che rimaneva distante anche quando sembrava più vicino. Nessun partito, infatti, era davvero disposto a offrire un canale, una sponda concreta al movimento. Nemmeno quelli che sembravano appoggiarlo e sostenerne le istanze.

Sono loro, i partiti, soprattutto a sinistra, ad aver tradito, a non aver mai veramente appoggiato la critica al neoliberismo e alle distorsioni provocate dal capitalismo, perché essi stessi sono andati verso una svolta liberista. Non hanno sostenuto le istanze sociali, internazionaliste, pacifiste ed ecologiste dell’epoca, perché hanno scelto strade opposte, spesso con giustificazioni ridicole. Genova è stata il fianco scoperto di quella assenza di “protezione”, di quella solitudine politica nella quale i mostri macellai hanno potuto muoversi quasi indisturbati. A Genova quella generazione così ampia e così ricca di ideali di giustizia è stata schiacciata, torturata, massacrata e in parte uccisa. E ha perso la voce.

Semplicemente perché è stata tradita e abbandonata da tutti, già anni prima del 2001. Presa in giro da finti rivoluzionari rivelatisi poi macchiette da salotto e soprattutto da chi avrebbe potuto far proprie le idee, le denunce di quel movimento e, invece, non lo ha fatto. Anzi, al di là di qualche frase di circostanza, ne ha celebrato il funerale, con vitrea indifferenza o più probabilmente con nascosta soddisfazione. Non so se davvero abbiamo perso del tutto la voce. Forse non individualmente, ma di certo a livello collettivo l’abbiamo persa.

Le piazze si sono svuotate e quel movimento si è frammentato. Ciò che si temeva a livello mondiale sta avvenendo e quella critica al sistema, che dal movimento era portata avanti con intelligenza e maturità frutto di studio e di attivismo, oggi è stata rubata e completamente distorta, inquinata da movimenti politici di ispirazione populista che nulla hanno a che fare con il grande respiro solidale, umanistico e culturale di quei giovani, dalle esperienze diverse ma dall’obiettivo comune.

Giovani di ogni estrazione che a Genova volevano solo affermare, ad alta voce, che un mondo migliore sarebbe stato possibile. Quei giovani avevano ragione. Hanno ancora ragione.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org