Manchester, 22 maggio, uno scoppio in mezzo alla gioia. Un altro atto infame e vile, altro sangue innocente. Ventidue vittime, le lacrime, il cordoglio. L’Europa è ancora una volta scioccata, ferita. Aumentano controlli, sorveglianze, in alcune città si sospendono celebrazioni o feste, si blindano i prossimi grandi eventi. Fino alla prossima volta, quando il solito attentatore bucherà le maglie della sicurezza e colpirà nuovamente. Riuscire a fermare del tutto il terrorismo all’interno di una nazione è pressoché impossibile, perché per farlo bisognerebbe sospendere democrazia e libertà. E non basterebbe comunque.

L’odio ha altre radici, ha origini che vanno riconosciute, affrontate, rese inoffensive con strumenti più durevoli e profondi della sola repressione. Altrimenti è tutto inutile. È inutile rispondere con la stessa moneta, identificando un nemico che una identità precisa non ce l’ha. La storia della matrice religiosa o del pericolo immigrazione è solo una bugia proficua per chi vuole creare un bersaglio da colpire, il più debole, e reclutare in tal modo consensi facili da trasformare in voti. È sempre stato così e non è questione di complottismo, ma semplicemente di banale e rozzo sciacallaggio politico.

Il fanatismo islamico è solo un collante, uno strumento usato dai signori del terrore per dare a qualche gruppo di emarginati o di criminali una ragione alla quale attaccarsi e per la quale prepararsi a sacrificare la vita. Non è una guerra di religione, come qualcuno sostiene. Non lo è perché il terrorismo cosiddetto jihadista in realtà porta avanti precisi interessi politici ed economici e, nel fare ciò, uccide anche i musulmani, sia in Europa che in altre parti del pianeta.

L’immigrazione, poi, non c’entra affatto, se è vero che i terroristi sono in maggioranza cittadini nati e cresciuti qui, con le nostre abitudini, i nostri codici, le nostre ghettizzazioni. Quando succedono certe cose, sarebbe meglio passare meno tempo a vomitare odio e cretinate e qualche minuto in più a comprendere cosa hanno vissuto quotidianamente, per anni, coloro che scappano verso le porte d’Europa e che noi accogliamo con sospetto, diffidenza, ostilità o lasciamo morire in mare, mettendo sotto accusa perfino chi svolge sacrosante operazioni di soccorso.

Tutti parlano di risposta dura, la vita nelle grandi città europee è blindata e quello che prima era un momento normale e gioioso, come andare a un concerto, oggi è diventato un rischio. Intanto noi siamo sempre pronti a indignarci per i fatti a noi vicini, a dichiararci un giorno parigini, l’altro londinesi, l’altro di Manchester e l’altro ancora nizzardi. E così via, in un vortice di identità che di identitario non ha nulla. Perché dell’identità europea non ce ne importa molto, se è vero che il progetto di Europa unita è in costante crisi e fatica a farsi amare dal popolo europeo.

In realtà, noi difendiamo solo la nostra paura personale, che non è paura di morire, ma di rinunciare a qualcosa. Un isterismo individualista che impedisce la comprensione dei fenomeni. Così ci si affida ai costruttori di odio, i veri responsabili di ciò che sta accadendo. Quelli che puntano il dito sui migranti, su persone innocenti, su coloro i quali sono anch’essi vittime della stessa violenza e anzi, visto quel che accade in certi quartieri dopo un attentato, lo sono persino due volte. Continuiamo a dar fiducia ai demagoghi di quart’ordine, a quelli che vorrebbero il colpevole, uno qualsiasi, purché risponda a determinate caratteristiche, da linciare e usare come pretesto per colpire e far fuori tutti coloro che in qualche modo ne condividono un tratto, sia esso etnico, geografico, religioso o persino fisico.

Non capiamo, non abbiamo ancora capito che rispondere con l’odio non serve a niente, che colpire i migranti, accusarli di terrorismo, di essere infiltrati, non ha alcuna logica, perché non esistono collegamenti fra chi arriva in barcone e i terroristi. Ed è pura follia pensare una cosa del genere, oppure banalmente è malafede. Non abbiamo capito che il terrorismo si serve dell’odio che noi stessi alimentiamo, lo stesso odio che doniamo a chi è lontano dai nostri confini culturali o religiosi, risolvendo questi confini in poche e distorte categorie. Ghettizzare, emarginare, umiliare è il verbo che l’Occidente usa spesso anche al suo interno e che suscita la rabbia degli esclusi, che non sono affatto stranieri.

Lo straniero, infatti, sopporta di più, perché il dolore e la fatica dell’emarginazione li mette in conto, almeno inizialmente, ma ciò non lo distoglie dal suo obiettivo di sistemarsi, vivere, lavorare, trovare il modo di andare avanti ed emergere. Valeva anche per gli emigranti italiani all’estero e per quelli meridionali nel nord Italia. Il cittadino nato e cresciuto nel paese in cui vive, invece, vorrebbe ottenere subito quello che ritiene gli sia dovuto, vorrebbe vedersi realizzare una sua idea di società, nella quale il suo ruolo non sia marginale o misero. Così quando osserva la sua vita di negazioni e di esclusione, si riempie di rabbia. È lì, allora, che la radicalizzazione che il terrorismo cerca di concretizzare trova terreno fertile. E si tratta dello stesso terrorismo che per anni è stato finanziato e armato dai paesi che oggi colpisce.

Allora, lasciamo da parte le balle pericolose dei Salvini e delle Le Pen di turno, se davvero vogliamo costruire un mondo di pace. Torniamo a guardare agli esseri umani, a leggere dentro i bisogni dell’uomo, a promuovere umanità; accogliamo i migranti che del terrorismo sono vittime e che, al contrario di quel che si pensa, possono aiutarci anche nella lotta al terrore, perché lo hanno conosciuto prima di noi, quando saltavano in aria i loro bambini e i loro familiari e noi, rinchiusi nella nostra fortezza, facevamo spallucce, pronunciavamo al massimo una parola di dispiacere, cambiavamo canale e passavamo ad altro. 

Massimiliano Perna -ilmegafono.org