“La mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano e, come tutti i fatti umani, ha un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto, bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave; e che si può vincere non pretendendo l’eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni.” (Giovanni Falcone).

Venticinque anni sono passati da quel 23 maggio 1992. Mia figlia non aveva ancora compiuto due anni e la storia del Novecento si macchiava ancora di sangue e di vergogna, una volta di più. Nei suoi quasi due anni di vita tante cose erano già successe: la prima guerra del Golfo, l’inizio della fine nella ex-Jugoslavia dove il sangue della pulizia etnica scriveva pagine di violenza inumana. E in quel giorno di maggio il tritolo seminato su un’autostrada cancellava Giovanni Falcone, la donna che amava, anche lei Magistrato, e coloro che cercavano di proteggere una vita che in troppi volevano spegnere. Sarebbero passate poche settimane e il disegno si sarebbe completato con la strage di via d’Amelio e la morte di Paolo Borsellino.

Come se, davvero, il libro nero della storia di questo Paese non potesse avere una fine. Anni, decenni, scanditi dalle stragi e dove ogni volta si è provato a ricostruire partendo dalle macerie e dalle connivenze di uno Stato sempre così lontano dalla sua gente ma sempre così forte e compatto quando si tratta di coprire, depistare, salvaguardare se stesso e il proprio recinto di complicità. La vita e la grandezza di Giovanni Falcone, come Uomo e come Magistrato, sono una pagina della storia di questo paese che tutti noi conosciamo e su cui è stato scritto molto, ma non ancora tutto. E quel molto non basta, perché non racconta ancora tutta la verità alle generazioni che di Giovanni Falcone hanno solo sentito parlare ma non hanno fatto in tempo a conoscerlo, e non hanno potuto vedere in tempo reale tutta l’opera di isolamento e di delegittimazione del suo lavoro.

Quel suo essere uomo di Stato nei fatti e nel lavoro e per questo ostacolato e isolato da quella parte dello Stato, delle istituzioni e degli organi d’informazione, che avevano ben capito la straordinaria importanza della strada che stava percorrendo e che, di quella strada, avevano paura. Ed è proprio questa la pagina più importante della storia di Giovanni Falcone, che non è una favola a lieto fine.

La mafia. Già, la mafia. Quella mafia che a parole tutti vogliono combattere e sconfiggere ma alla quale è lasciato libero il terreno su cui proliferare e seminare, in attesa del raccolto che inevitabilmente arriva. È un terreno dove convivono arretratezza e violenza e in cui l’assenza dello Stato si manifesta in tutti quei settori che sono le fondamenta di una società libera e civile: il sociale, la cultura, l’etica della politica, la trasparenza dell’amministrazione pubblica, il lavoro, il territorio. La mafia che arriva da lontano, con le sue radici che provano a innestarsi ovunque il terreno sia disponibile ad accoglierle, ed è proprio questo il punto: il terreno, non solo disponibile ad accoglierle ma anche ad annaffiare, curare e far crescere quelle radici mafiose. E quelle radici sono tentacoli che si prendono tutto.

Quel terreno esiste da sempre in questo paese e unisce la Sicilia più profonda con il Nord della penisola in un abbraccio che è sempre più mortale e soffocante. È una stretta cui in pochi riescono a sottrarsi, fatta di favori e di scambi, di protezioni e di affari, di appalti e di carriere politiche, di privilegi e ricchezze che si alimentano a vicenda, di soldi che comprano tutto e girano, girano e si ripuliscono in un gorgo enorme. Qualcosa in cambio di qualcos’altro. Con il potere e il controllo del territorio come denominatore comune, e i soldi sempre pronti per ogni acquisto, materiale o umano non importa, necessario allo scopo.

Seguire il denaro per trovare la mafia, diceva Giovanni Falcone. Per questo la strada sulla quale Giovanni Falcone stava camminando faceva paura, e per questo occorreva disseminarla di ostacoli. E, soprattutto, era necessario delegittimarlo agli occhi della gente onesta partendo proprio dalla sua Sicilia. Occorreva che intorno a lui nascesse e si sviluppasse il dubbio del “protagonismo dell’antimafia”, il dubbio sulla sua reale integrità. “Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno …”.

In quest’altra frase di Giovanni Falcone c’è tutta la consapevolezza dell’Uomo prima ancora che del Magistrato, di chi capisce perfettamente il punto cui il suo vivere è arrivato. È un atto d’accusa nei confronti di quello Stato che lui e altri come lui avevano amato e servito con coraggio e dignità. Un atto d’accusa che trova mille riscontri nella storia passata e nel tempo che seguirà la sua morte. Penso alla solitudine di Carlo Alberto dalla Chiesa, Prefetto di Palermo per soli cento giorni, portato in palmo di mano negli anni della lotta al terrorismo ma poi lasciato solo proprio nella terra del Gattopardo, e a quella sua ultima intervista rilasciata a Giorgio Bocca nell’agosto del 1982 che suona come un testamento.

Penso a Pio La Torre e ai tanti che hanno dedicato una vita intera all’idea di lavorare per riuscire a rendere migliore questo Paese. E quella vita l’hanno persa perché lasciati davvero soli davanti alle porte che stavano aprendo. Penso a Rocco Chinnici, che aveva voluto e costruito, per primo nella storia di questo Paese, quel “Pool Antimafia” che doveva essere capace di far lavorare insieme i tanti giudici istruttori che fino a quel momento lavoravano individualmente, senza un reale scambio d’informazioni. Anche Rocco Chinnici fu ucciso dal tritolo, la sua opera sarà portata avanti da un Uomo degno come Antonino Caponnetto.

Penso a quei poliziotti dal volto umano come Ninni Cassarà e Beppe Montana uccisi perché cercavano i latitanti. Penso ai troppi che non hanno risparmiato nessuna ferita e nessun insulto a Giovanni Falcone quando era in vita e poi si sono fatti vanto del suo nome e del suo lavoro, ipocriti e miserabili. Penso a quello che in molti hanno scritto di lui dopo il fallito attentato dell’Addaura. Penso a quel giorno, il 19 giugno del 1988, in cui il Consiglio Superiore della Magistratura stabilì che il testimone lasciato da Antonino Caponnetto non doveva essere preso da Falcone e decise quindi di scegliere Antonino Meli. Penso a quando l’amministrazione penitenziaria dell’Asinara, quindi lo Stato, fu capace di chiedere a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino il conto per le bevande consumate durante i venticinque giorni trascorsi sull’isola per scrivere l’istruttoria per il maxi-processo.

Ecco, penso a tutto questo e cosa resta? Resta molto, nel bene e nel male. Da una parte restano l’immensa gratitudine e il profondo rispetto verso un Uomo come Giovanni Falcone e la sua storia, resta il privilegio di aver vissuto, grazie a Uomini come lui, una stagione d’idee e la speranza che questo Paese volesse davvero cambiare. Restano l’insegnamento e il valore dell’etica che a tutti noi, che pure lo abbiamo conosciuto solo attraverso le notizie dei telegiornali del tempo, ha saputo trasmettere. Resta l’aver capito l’importanza del lavoro di squadra, tutti insieme. Resta la storia di Giovanni Falcone che parla da sola, per chi la vuole leggere davvero, e la certezza che, come diceva lui “… gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini”.

Da un’altra parte restano invece l’amarezza e la consapevolezza che quel libro che lui stava scrivendo è stato stracciato e calpestato da chi ha sempre trattato con la mafia, fingendo che tutto cambiasse senza in realtà cambiare nulla. Mia figlia non aveva ancora due anni quando succedeva tutto questo, ora ne ha molti di più e sa chi era Giovanni Falcone e cosa ha voluto dire per molti di noi.

Maurizio Anelli (Sonda.life) -ilmegafono.org