Anche in Iraq, come in Siria, lo Stato islamico (Is) sta perdendo terreno. La sua sconfitta, almeno sul piano militare, è ormai vicina con l’offensiva finale su Mosul, la città da cui il leader jihadista Abu Bakr al Baghdadi proclamò la nascita del califfato islamico nel giugno del 2014. Mosul ha un valore strategico, oltre che simbolico, in quanto vicina ad una diga in grado di produrre energia da utilizzare come strumento di finanziamento. La diga ora è sotto il controllo dell’esercito iracheno e vi lavorano gli ingegneri di una ditta italiana, la Trevi, che ha ottenuto lo scorso anno l’appalto per la manutenzione della struttura.

Quando lo Stato islamico, tra il luglio e l’agosto del 2014, prese il controllo della diga, molti analisti temevano che l’Is la usasse per ridurre le forniture di acqua ed elettricità, ma fortunatamente nell’agosto di quell’anno le forze irachene riuscirono a cacciare i miliziani jihadisti dall’area.

Nella città di Mosul e nelle aree circostanti, invece, continuano gli scontri: dopo aver riconquistato la parte orientale del centro urbano, a est del fiume Tigri, ora l’offensiva delle forze irachene si è concentrata nella parte occidentale, dove sono già stati espugnati diversi quartieri prima in mano al gruppo estremista. Lo stesso leader dello Stato islamico, Al Baghdadi, sarebbe in fuga verso la Siria. Secondo alcune fonti, si sarebbe già stabilito nel paese vicino. La disfatta militare dello Stato islamico, quindi, sembra essere ormai imminente e nel paese dilaniato da tre anni di guerra e dalle ripercussioni dei conflitti precedenti al 2014 si è acceso un intenso dibattito su quale assetto politico e istituzionale esso dovrà avere una volta cacciati i leader jihadisti.

Le diverse fazioni religiose ed etniche che compongono lo scenario politico nazionale hanno già presentato delle proposte per il futuro del paese, ma le divisioni interne alla parte sciita e curda, alimentate da tre anni di guerra, e il conflitto ancora insanabile tra una parte della maggioranza sciita e la minoranza sunnita rischiano di esacerbarsi. Il leader religioso sciita Moqtada al Sadr, che rappresenta una minoranza della popolazione sciita, ha presentato una proposta “per la riconciliazione nazionale” in diversi punti, che però sono già stati criticati dal cosiddetto ”establishment” sciita nel paese.

L’Alleanza nazionale sciita, coalizione di partiti che hanno la maggioranza in parlamento, guidata da Ammar al Hakim, ritiene infatti la proposta di al Sadr inaccettabile. Tra i punti salienti del documento presentato da al Sadr, la creazione di un fondo sostenuto dall’Onu per la ricostruzione post-bellica e la tutela delle minoranze e dei diritti umani, la promozione del dialogo politico che includa anche i leader tribali, e lo scioglimento delle Unità di mobilitazione popolare a maggioranza sciita (Pmu), forza che è stata “legalizzata” a novembre scorso dal parlamento e che ha contribuito attivamente alla guerra contro l’Is. Su quest’ultimo punto le divisioni tra le due anime dello sciismo sembrano davvero insanabili.

Per l’establishment, infatti, è naturale che le Pmu, per quanto accusate in passato di violenze ai danni dei sunniti, diventino una forza legale e forse anche in qualche modo “autonoma” o speciale. Per al Sadr e per i sunniti, questo è inconcepibile. L’Alleanza nazionale guidata da al Hakim, infatti, ha appoggiato nell’autunno scorso la “legalizzazione” delle Pmu e non è disposta a fare marcia indietro. Al Sadr chiede che le Pmu siano integrate nelle forze armate irachene e che solo queste siano considerate responsabili dell’ordine e della sicurezza in tutto il paese. I sadristi chiedono inoltre che il governo iracheno cacci “tutte le forze di occupazione e anche quelle ‘amiche’ dal territorio iracheno” per preservare l’integrità e la sovranità territoriale dello Stato. Questo significa l’espulsione degli Stati Uniti e dei consiglieri iraniani che affiancano le forze irachene nella lotta allo Stato islamico.

A complicare ulteriormente la situazione sono le divisioni in seno ai curdi, un popolo sparso in diversi paesi e spesso perseguitato che però, in Iraq, ha trovato un suo riconoscimento nella regione autonoma del Kurdistan iracheno (Krg), guidata in questo momento da Massoud Barzani. A lui e all’amministrazione di Erbil, capoluogo della Krg, fanno capo le forze speciali Peshmerga, che hanno avuto un ruolo determinante nella guerra all’Is e che nei giorni scorsi si sono scontrate con milizie curde rivali, facenti capo al Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), un gruppo armato considerato terroristico dalla Turchia, dall’Ue e dagli Stati Uniti.

Miliziani delle Unità di protezione di Sinjar (Ybs), affiliati al Pkk, si sono scontrati con combattenti Peshmerga, che rispondono al governo di Erbil, nella località di Khanasor, nella provincia yazida di Sinjar. La città di Sinjar, che si trova sotto il controllo del governo federale, è stata liberata dal giogo dello Stato Islamico (Is) nel dicembre 2015 grazie al contributo del Pkk, ma parte delle aree circostanti, tra cui Khanasor, secondo Erbil, ricadono nel territorio della regione autonoma curda. Lo status di questa città sarà un altro tema da affrontare nel dibattito sul futuro assetto del paese.

G.L. -ilmegafono.org