Il servizio di etnopsichiatria dell’Ospedale Niguarda ha accolto in trattamento circa 1600 migranti, dal 2000 ad oggi. “Dal 2011 la maggioranza dei pazienti che afferiscono al Servizio sono richiedenti asilo, profughi, spesso vittime di torture e di maltrattamenti estremi”. Carlo Pagani, medico psichiatra dell’ospedale milanese, racconta il disagio psichico nella migrazione e la prospettiva etnopsichiatrica, secondo cui la cura parte dall’accoglienza delle singolarità e dalla costruzione di ponti, in grado di oltrepassare i muri della diffidenza tra culture.

Dottor Pagani, la maggior parte dei nostri lettori non ha mai sentito parlare di etnopsichiatria. Vuole spiegarci di cosa si tratta e i concetti su cui si fonda?

Il termine etnopschiatria comprende in sé tre parole: etno (hetnos), che significa famiglia, razza, ma anche territorio; psiche (psyché), che significa spirito, anima, soffio vitale; e iatreia, che è il prendersi cura. L’origine del termine risale alle prime osservazioni di psichiatri occidentali dei fenomeni psichici e delle loro alterazioni in popolazioni lontane in senso geografico ed in senso culturale. Il termine oggi sta ad indicare una pratica clinica in cui per comprendere, per entrare in contatto con una persona (non necessariamente straniera) si parte dall’ascolto e dall’accogliere la sua visione del mondo, di se stesso, sospendendo il giudizio e lasciando solo sullo sfondo i nostri criteri diagnostici, che spesso tendiamo a considerare di valore assoluto. In altre parole si tratta di stabilire un confronto autentico e rispettoso sul quale costruire un incontro di alleanza in cui negoziare gli obiettivi e i modi della cura.

Migrare implica necessariamente uno sradicamento ed un cambiamento di contesto socio-culturale. Quali sono gli elementi che co-occorrono nel disagio psichico dei soggetti che hanno fatto esperienza di migrazione?

Sì, si tratta certamente di uno strappo nel continuum della propria vita in senso affettivo, linguistico e culturale. Spesso inoltre il progetto migratorio è fragile, condizionato da illusioni ed aspettative, quindi esposto a delusioni, imprevisti e grandi ostacoli. Il senso di fallimento aleggia costantemente ed il timore di non poter onorare gli sforzi che le famiglie fanno per finanziare il viaggio apre a sentimenti di vergogna, di isolamento, che spengono le capacità di resilienza tanto necessarie in questa fase della vita. Si può creare così il terreno per la comparsa di sindromi depressive, stati ansiosi e spesso disturbi psicosomatici. Ometto qui di parlare dei gravi traumi, spesso ripetuti nel corso del viaggio ed anche all’arrivo dei profughi dai luoghi di guerra o di persecuzione.

Il tema dell’accoglienza è estremamente attuale. I professionisti della salute mentale da sempre pongono un’attenzione particolare all’accoglienza del soggetto nella sua unicità. Nella sua esperienza di psichiatra, quali sono gli elementi imprescindibili dell’accogliere adeguatamente e per promuovere il benessere dell’individuo?

La consapevolezza, appunto, che chi si ha davanti è un soggetto unico ci impone di rinunciare a “leggerlo” rigidamente secondo i criteri diagnostici che abbiamo appreso. Occorre prima costruire un ponte che superi la diffidenza, che consenta un confronto e quindi una relazione basata sulla fiducia. Nella nostra esperienza un’accoglienza informale , poco burocratica, flessibile e capace di  partire dai bisogni sociali ancor prima che clinici è stata la base per creare relazioni di cura.

Dottor Pagani, l’Ospedale Niguarda offre un servizio di etnopsichiatria, di cui lei è responsabile. Vuole raccontarci come è nato il servizio e come risponde alla richieste territoriali?

Il Servizio è nato nel 2000, come progetto sperimentale, per offrire assistenza psichiatrica territoriale a quei pazienti stranieri irregolari dimessi dai reparti psichiatrici del nostro ospedale e che non avevano possibilità di proseguire le cure ed i controlli  dopo il ricovero. Si trattava per lo più di migranti economici, spesso senza fissa dimora e senza documenti quindi con bisogni sociali primari che non potevano essere ignorati in una presa in carico complessa. In quegli stessi anni, per necessità, abbiamo iniziato a costruire una rete con associazioni , centri di accoglienza ed anche con l’Ufficio Stranieri del Comune di Milano per garantire ai pazienti un supporto sociale sufficiente; contemporaneamente studiavamo dei modi per semplificare l’accesso al Servizio ed alle cure. Abbiamo creato un gruppo di lavoro multidisciplinare costituito, all’inizio, da uno psichiatra, due psicologhe psicoterapeute ed un assistente sociale, garantendo uno spazio di ascolto quotidiano senza necessità di appuntamento né di altre formalità. Anche lo spazio fisico è stato pensato informale, privo di barriere e confortevole.

Da allora  siamo cresciuti di numero, di esperienza e di casi trattati: circa 1600 dal duemila ad oggi. Dal 2011 la maggioranza dei pazienti che afferiscono al Servizio sono richiedenti asilo, profughi, spesso vittime di torture e di maltrattamenti estremi. Questo ci ha messo a confronto con disturbi complessi e ambigui, a volte esplosivi come i disturbi da stress post traumatico che oggi siamo sempre più spesso chiamati a curare. Ma l’approccio resta quello biopsicosociale in cui convergono psicoterapia intensiva (con la presenza di mediatori linguistico culturali), psicofarmacologia e supporto sociale.

Vuole raccontarci un’esperienza professionale in cui assumere uno sguardo transculturale ha fatto la differenza nel buon esito di un trattamento?

Un caso paradigmatico è quello di un giovane paziente del Gambia che attribuiva il suo malessere (mal di testa, brutti sogni, tristezza e stati di agitazione) all’influenza di spiriti maligni “entrati” in lui durante la carcerazione in Libia. Per questa convinzione rifiutava ogni tipo di trattamento e manifestava una forte tendenza al ritiro sociale. La chiave è stata quella, sempre con l’aiuto di un mediatore, di accogliere questa sua lettura della sofferenza e di cercare con lui il modo per liberarsi dagli spiriti Jiin. Ci siamo messi in contatto con la famiglia e abbiamo chiesto che gli anziani del suo villaggio intervenissero per aiutarlo. Questo ha sciolto la diffidenza nei nostri confronti e ciò gli ha permesso di aprirsi progressivamente e di raccontare, superando la vergogna, le sevizie subite durante il viaggio e di accettare, in attesa che gli giungessero i rimedi inviati dalla famiglia, anche un supporto farmacologico. Il paziente è progressivamente migliorato ed ha accettato di assumere dei farmaci per dormire, ha iniziato un percorso di psicoterapia e quando sono arrivati i rimedi dall’Africa

Laura Magni, psicologa (Sonda.Life) -ilmegafono.org