Dopo oltre dieci anni di attività e ben cinque album alle spalle, i Captain Mantell tornano con la loro sesta fatica, “Dirty White King”, in uscita il prossimo 20 marzo per le etichette Overdrive, Dischi Bervisti, Sotterranei e Cave Canem. Un album nel quale ci colpiscono con la qualità del loro sound hard rock/progressive metal, ma lo fanno “sporcandolo” magistralmente di blues e jazz. Complessi e geniali, i Captain Mantell ci stupiscono con un bouquet di generi e stili che risvegliano l’interesse anche delle orecchie più difficili.

Con il loro primo brano (la title track Dirty White King), irrompono nella nostra quiete con una chitarra irriverente, ci scompigliano e rimescolano ogni nostra certezza con potenti bassi e batteria, mentre la voce segue e supera ogni ostacolo, plasmandosi senza mai rubare la scena alla musica, ma al contempo senza mai risultare timida o scontata. Il tutto assume la forma di un ribelle tentativo di rompere la banalità musicale in cui oggi galleggiamo e scuotere la stagnante offerta, con vocalità e musica che sono rarissime da incontrare.

The invisible wall, invece, richiama alla mente l’accattivante stile di Dave Grhol dei Foo Fighters o di Josh Homme dei Queens of the Stone Age, con la voce che gioca quasi a rincorrere la potenza della musica. Nella quarta traccia (Worst case scenario/Alone), bastano solo una voce cupa e ipnotica e un basso instancabile per iniziare il viaggio.

E se Blood freezing ha un suono garage e accattivante, capace di scuotere le carni e le ansie più dormienti, Let it down è invece un labirinto di ritmi ossessivi che trovano il loro filo di Arianna in un sassofono instancabile e suonato con innovativa maestria, sovrapponendosi a chitarre e bassi, in una guerra epocale che non ha etichette. Nel successivo brano (Inner forest), la genialità di questa contaminazione si conferma pienamente e cattura.

Nella decima traccia, In the dog graveyard, il sax diventa sirena e accende un’apocalisse di suoni e distorsioni che non lascia via d’uscita, e allora non resta che lottare contro il destino fino all’ultimo istante, armati di chitarre elettriche e batteria. Alla fine, rimarrà soltanto la buona musica a testimoniare il misfatto. Even Dead propone una musica che diventa corale, con tutti gli strumenti che si sposano magistralmente in una traccia che ha tutto, dai sassofoni al violoncello.

Il disco si chiude con And nothing more to come… maybe, un brano nel quale quiete e tempesta si rincorrono. E a questo punto si può solo sfuggire ai turbinii musicali, ascoltare i sussurri, ripararsi dalla pioggia elettrica e godere degli improvvisi arcobaleni. Distorcere per creare nuove prospettive, contaminare per arricchire le possibilità di fuga: questo album semplicemente va alla ricerca della perfezione, con puntualità e con una bravura che ricorda i mitici Dream Theater. Ma neppure questi ultimi erano arrivati a portare i fiati e gli archi sul palco.

I Captain Mantell sono tutto, sono quiete e rivoluzione, intimità e tormento. Ricchi e complessi, affascinano e non stancano mai con la loro stupenda sperimentazione. Non troverete appigli e boe, in questo maestoso fluire di musica: bisogna solo lasciarsi trasportare mettendo alla prova la propria capacità di sorprendersi.

FrankaZappa -ilmegafono.org

La copertina dell’album “Dirty white king”.