Lo abbiamo lasciato passare ancora una volta, questo 19 luglio. E ogni anno che passa è come se il suo significato sfumasse, o meglio, come se qualcuno volesse farlo sfumare. Restano solo i familiari, i poliziotti, qualche magistrato, le associazioni antimafia, pochi giornalisti e quei cittadini che non dimenticano, non hanno mai dimenticato. Restano soltanto loro a ricordare davvero, a insegnare ai ragazzi la storia di quei giorni, quello che è successo prima, quello che è accaduto dopo, fino ai giorni nostri, fino a quel vuoto di verità che ancora fa male, brucia. Rimangono le immagini, qualche servizio televisivo che ce le mostra, qualche dichiarazione di facciata, un paio di trasmissioni in canali e orari sperduti e nulla più.

Per una parte di questo Paese, via D’Amelio ha assunto i contorni di un fatto lontano. E coloro i quali continuano a battere i pugni, manifestare o alzare in aria delle agende vengono guardati quasi con pietismo, con compassione, oltre che con evidente fastidio. Perché disturbano con la loro richiesta di verità, con la loro ostinazione nel non credere che quella terribile fase stragista sia stata opera soltanto della mafia, senza complicità esterne, senza una regia condivisa che permettesse di organizzare due attacchi di tale portata al cuore dello Stato.

I cercatori di verità, gli scettici delle versioni ufficiali sono considerati cocciuti, patetici, complottisti, anche quando fanno notare con dovizia e precisione le contraddizioni, le stranezze, i riscontri giudiziari. Sono gli unici rimasti a combattere per pretendere che si faccia luce su quel momento fondamentale per la storia recente italiana. Questa lotta essi la conducono non solo il 19 luglio ma tutti i giorni. Gli altri, invece, si limitano alle frasi di circostanza, a un messaggio che contenga l’abusata parola “eroi”, alla solita retorica che poi si smentisce nella quotidianità, quando l’esempio di quegli uomini che facevano il proprio dovere e che non avrebbero mai voluto essere chiamati “eroi” non viene seguito.

Allora, in questa Italia, il 19 luglio è lo specchio di una nazione divisa, che ha scelto di distrarsi, di mettere da parte quel periodo come fosse chiuso, finito, bollando le stranezze e le risultanze investigative come coincidenze o fantasie dolorose. Una nazione nella quale di mafia non si parla più abbastanza, ci si limita alla cronaca, al racconto di questa o quella inchiesta, di questo o quello scandalo, ma non si riflette più, non si dà spazio al ragionamento approfondito, non si legge più la storia di quei giorni e degli anni precedenti. Allora, che passi pure così questo 19 luglio, che sia solo una questione di chi ci crede ancora o dei più giovani, quelli che non c’erano ma che si informano e credono ancora a un futuro senza mafia e per quello sono pronti a lottare, pur sapendo che, come diceva Paolo Borsellino, non saranno loro a celebrare la vittoria ma le generazioni future, i figli dei figli dei figli dei loro figli.

Che sia patrimonio solo di quei giovani altruisti che, grazie all’educazione derivata dall’impegno e dalla partecipazione, dagli esempi, dalle associazioni e dalle scuole che mirano a creare cittadinanza, studiano per fare i magistrati o scelgono di entrare nelle forze di polizia, puntando magari ai reparti speciali, o iniziano a fare i giornalisti tenendo da subito la schiena dritta. Quei giovani di cui parlava e nei quali credeva Pina Maisano Grassi, che in quella spinta individuava il seme di un futuro migliore, nel quale la resistenza alla mafia, anche nelle sue nuove forme, potrebbe essere più forte e matura, consapevole.

È una lotta certamente lunga ed è resa ancor più difficile dall’inerzia di un Paese che invece sembra ormai assuefatto, lontano dalle spinte che dopo le stragi costrinsero le istituzioni ad agire, a non tergiversare più. Non a trattare, come purtroppo avvenne. La gente chiedeva un cambiamento e qualcosa è indubbiamente cambiato, ma si poteva vincere, l’Italia ha avuto l’occasione di mettere in ginocchio cosa nostra e di arrivare a quella verità per la quale Falcone e Borsellino sono stati eliminati. E prima ancora attaccati, diffamati, isolati, anche da molti di quelli che oggi fingono di commemorarli, sperando di cancellare dalla memoria collettiva le proprie passate miserie.

Gli stessi che oggi isolano chi prova a riconsegnare un po’ di verità agli italiani, ai palermitani, ai siciliani. Il 19 luglio, se lo si guarda bene, è diventato una lente di ingrandimento su un pezzo di storia di questo Paese che qualcuno spera di accantonare, per evitare che si possano aprire quegli armadi che fanno paura, perché potrebbero far scricchiolare carriere, storie, nomi e cognomi rispettati. Armadi dentro i quali sono nascoste le tracce indelebili dei mandanti e dei veri assassini di Capaci e via D’Amelio o dell’agente Nino Agostino, pagine buie di una democrazia zoppa, fondata su un patto perverso e sul sangue di chi non voleva perdere la speranza di un’Italia che profumasse di libertà. Speranza che è rimasta viva in chi non dimentica e si ribella ancora, nonostante tutto.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org