Pochi mesi fa era toccato a Berta Càceres, fondatrice del COPINH (Consiglio dei popoli indigeni dell’Honduras), uccisa, secondo la versione ufficiale, per una rapina finita male, ma in realtà punita con la morte per essere una delle più importanti attiviste ambientaliste sudamericane. Una donna coraggiosa che aveva scelto di difendere l’ambiente e i diritti dei nativi honduregni dalle ingiustizie e dalle mire sporche di grandi gruppi di affari in combutta con il governo dell’Honduras. La Càceres, nel 2015, aveva vinto il prestigioso Goldman Enviromental Prize proprio per essersi opposta alla realizzazione di uno dei più grandi progetti idroelettrici dell’America Centrale.

Ma per questa sua battaglia contro quella che è una grande speculazione che coagula grossi interessi, oltre che per tutte le altre sue lotte, era stata anche minacciata, poco tempo prima di quella presunta rapina che in realtà è stata una vera e propria esecuzione. Una condanna a morte eseguita in un Paese considerato tra i più violenti e corrotti al mondo, uno dei luoghi da cui la povera gente scappa, attraversando le frontiere e il deserto messicano, un percorso pieno di orrori e violenze, per provare ad arrivare negli Stati Uniti e sperare in una vita migliore in un contesto meno diseguale.

L’assassinio di Berta Càceres ha sconvolto il movimento ambientalista honduregno e mondiale, la notizia ha attraversato i continenti e ha attirato l’attenzione sulle lotte che Berta stava conducendo e che, dopo la sua morte, i suoi compagni hanno deciso di proseguire. Almeno finché sarà possibile, finché saranno vivi. E non è facile, perché una decina di giorni dopo la Càceres è stato ucciso anche Nelson Garcia, altro membro del COPINH, che sarebbe stato freddato dalla polizia militare honduregna durante lo sgombero di un terreno occupato da contadini della comunità indigena Lenca. Pochi giorni fa, invece, è toccato a Lesbia Yaneth Urquía, anche lei appartenente al COPINH, al gruppo di Berta Càceres.

Anche la Urquía è stata ufficialmente uccisa per una rapina finita male. Volevano sottrarle la sua bicicletta: questa la versione diffusa dalle autorità. L’hanno trovata in una discarica, con uno squarcio alla testa, probabilmente un colpo di machete, nella città di Marcala. L’ennesima esecuzione ai danni di ambientalisti in un Paese nel quale politica e affari si mischiano e, grazie alla longa manus dei militari, si trasformano in un meccanismo repressivo e autoritario, violento e spietato, che prova a schiacciare qualsiasi forma di ribellione e di diritto.

L’uccisione di Urquía, altra leader del movimento che si oppone alla realizzazione del mega progetto idroelettrico, è solo l’ultima di una serie che rischia di allungarsi, se sono vere le rilevazioni di un ex militare che ha parlato di una lista di persone “scomode” che l’esercito honduregno avrebbe l’ordine di mettere a tacere con qualsiasi mezzo. E c’è anche un altro risvolto che riguarda la faccia discriminatoria, crudele e violenta dell’Honduras: “La morte di Lesbia Yaneth – afferma il COPINH nel suo comunicato – costituisce un femminicidio politico che cerca di far tacere le voci delle donne che con coraggio e valore difendono i propri diritti contro il sistema patriarcale, razzista e capitalista”.

L’assassinio di Lesbia Yaneth Urquía, come riporta un articolo del 9 luglio su Il Manifesto, potrebbe essere una intimidazione al movimento per via di una “consultazione popolare promossa dal popolo Lenka e dal Centro Hondureno para la Promocion del Desarrollo Comunitario (Cehprodec) in merito al progetto idroelettrico che il governo ha autorizzato all’impresa della vicepresidente del Congresso, Gladys Aurora Lopez, e del marito Arnold Castro”.

“Lunedì scorso – scrive nel suo articolo la giornalista Geraldina Colotti – nella città di Marcala si era svolta una iniziativa pubblica appoggiata dalle Nazioni unite: per informare i popoli indigeni e afrodiscendenti sul diritto a essere consultati per i progetti di sfruttamento dei propri territori. Lopez e Castro avevano chiesto al presidente honduregno Juan Hernandez di sospendere la consultazione di domani (il 10 luglio ndr) che – secondo alcune rivelazioni giornalistiche di fonte Onu – aveva infastidito molto la vicepresidente del Congresso”. 

Siamo, dunque, di fronte all’ennesimo tentativo di schiacciare chi si oppone e ridurlo al silenzio. Per fortuna, però, alle versioni ufficiali non crede nessuno e la gravità della situazione degli attivisti in Honduras sta facendo il giro del mondo, allertando anche le Nazioni Unite. Speriamo davvero che questo comporti un intervento deciso, in modo che non vi siano altre vittime e che, quantomeno, Berta, Nelson e Lesbia non siano morti invano.

Redazione –ilmegafono.org