Per la prima volta, tra meno di un mese, i cittadini italiani saranno chiamati a decidere sull’avvio di una scelta di cambiamento della politica energetica del nostro paese. Il 17 aprile il referendum popolare, con la vittoria del SÌ, cancellerebbe la norma (art.6 comma 17 della legge 152/2006,come modificato dal comma 239 dell’art. 1 della legge di stabilità 2016) che consente alle società petrolifere, con le piattaforme già operanti, di continuare a estrarre gas e petrolio entro le 12 miglia marine senza limiti di tempo. Votare SÌ significa dunque fermare gradualmente le attività di estrazione imponendo ai petrolieri il rispetto delle scadenze previste dalle concessioni, liberando le aree costiere dell’Italia e il nostro mare dai rischi di incidenti e di contaminazioni inquinanti sempre più devastanti.

Va ricordato che l’assurdo privilegio del tempo indeterminato per la produzione in atto entro le 12 miglia è stato concesso dalla maggioranza che sostiene il governo a esclusivo vantaggio dei petrolieri, senza tenere in alcun conto delle preoccupazioni da più parti manifestate sui rischi geologici, compresi i fenomeni di abbassamento del fronte costiero (subsidenza), delle alterazioni dell’habitat marino e del patrimonio vitale di biodiversità. Non imporre la cessazione delle attività alla scadenza delle concessioni, si tramuterebbe in un ulteriore vantaggio per le multinazionali che eviterebbero a tempo indefinito di procedere all’obbligo della rimozione delle piattaforme, della pulizia e dello smaltimento delle strutture, oltre alla chiusura mineraria del giacimento e alle collaterali attività di bonifica e di ripristino ambientale: costi rilevanti che dovrebbero sottrarre dai loro vantaggiosi profitti. 

Ė necessario avere le idee chiare per convincere la maggioranza dei cittadini a recarsi alle urne e a esprimere un forte SÌ che sgretoli l’arroganza di chi, come l’attuale maggioranza di governo, vuole trasformare il nostro territorio e il nostro mare in una selva di torri e di impianti maleodoranti e inquinanti, sacrificando bellezza e attività economiche ecosostenibili in discariche di materiali inquinanti e teratogeni. Tutto ciò, fra l’altro, senza nessun beneficio per il rilancio economico e lo sviluppo. Per questo è importante ricordare alcuni punti fondamentali che servono a confutare in modo inequivocabile le false valutazioni di esponenti del mondo politico e sindacale, di improvvisati comitati del no.

Innanzitutto non va dimenticato che la lunga e incessante mobilitazione in tutta Italia delle comunità locali, di associazioni, dei movimenti No Triv e la decisione di dieci regioni italiane contro lo scellerato disegno del governo Renzi di dare il via libera ad un piano generalizzato di trivellazioni, ha prodotto dei risultati importanti:

– lo stop alle nuove istanze di ricerca entro le 12 miglia marine;
– l’eliminazione del carattere di strategicità, indifferibilità e urgenza delle attività petrolifere e di stoccaggio di gas naturale, che ha riconsegnato alle regioni e agli enti locali un ruolo attivo da cui erano state estromesse;
– l’eliminazione dell’esproprio obbligatorio dei suoli già nella fase di avvio dei permessi di ricerca.

Il referendum del 17 aprile è un altro risultato di questa formidabile battaglia democratica. E il mancato accoglimento da parte della Corte costituzionale degli altri due quesiti referendari (limitazione della durata dei permessi per la ricerca e le estrazioni anche in terraferma; il piano delle aree per ridare centralità alla Conferenza Stato-Regioni vietando il rilascio di permessi e concessioni fino alla definizione dello stesso) solo per un vizio di forma e non per il merito, non sminuisce l’appuntamento referendario. Per questi ed altri motivi che sarebbe lungo elencare, la decisione del Pd di promuovere una campagna per l’astensionismo sul referendum del 17 aprile non solo è scandalosa ma dimostra una logica antidemocratica che nella storia appartiene solo alle oligarchie o alle compagini più retrive della destra conservatrice.

Le dichiarazioni risibili della Serracchiani e del vice segretario Guerini sulla inutilità del referendum e la mancanza di pudore nel dichiarare che è un costo che si poteva evitare è stupefacente, se si tiene conto che è proprio il governo a guida Pd a non aver voluto abbinare il referendum alle elezioni amministrative. Lo scopo è chiaro: fare in modo che non si raggiunga il quorum del 50,1% dei votanti. La scelta dell’astensionismo è la prova della malafede.  Viene però sottovalutata la possibilità che i cittadini e che gli stessi elettori e parte anche dei gruppi dirigenti del Pd, che in tante regioni d’Italia hanno sostenuto la battaglia contro le trivellazioni, possano ribaltare le speranze pro trivelle dei vertici governativi e del Pd, comprendendo appieno l’importanza e la portata dell’appuntamento del 17 aprile. Bastano alcuni elementi per comprendere la necessità della più ampia partecipazione.

Anche se in Italia si trivellasse senza regole, gli eventuali giacimenti di gas e petrolio rinvenibili non eliminerebbero la nostra dipendenza dalle importazioni. Allo stato attuale noi importiamo il 90% di idrocarburi liquidi e gassosi. Le quote estratte in Italia oggi costituiscono appena l’8-10% e un eventuale incremento nei prossimi 10-15 anni non permetterebbe di superare il 20%. E poiché non siamo in un’economia nazionalizzata, il greggio e il metano estratto apparterrebbero alle compagnie petrolifere che potrebbero destinarlo ad altre aree del mondo o venderlo e non regalarlo all’Italia. A noi resterebbero solo il danno ambientale, lo stupro delle risorse naturali e gli effetti nocivi sulla salute. Un prezzo altissimo che pagherebbero tutte le comunità e le attività economiche esistenti, causando guasti irreversibili per la qualità della vita delle future generazioni. È penoso registrare su questo aspetto la messa in onda, nei giorni scorsi, dal Tg3, di un’intervista a Gianfranco Borghini, esponente di un pretenzioso comitato del no, che quantificava con innocente ignoranza un apporto delle estrazioni in Italia attorno al 60% del fabbisogno nazionale.

Altro vaneggiamento, sponsorizzato da sindacalisti e da improvvisati donchisciotte, è l’ipotesi, con la vittoria dei SÌ, della perdita di migliaia di posti di lavoro. È un dato falso per due precisi motivi: il primo che la vittoria dei SÌ imporrebbe la cessazione delle estrazioni delle piattaforme off-shore solo alla scadenza delle concessioni. Come da più parti è stato evidenziato, delle 35 piattaforme operanti entro le 12 miglia, solo 5 andranno a scadenza tra cinque anni; le altre tra 10/15 anni.  Solo allarmismo propagandistico per alimentare dubbi e false preoccupazioni, funzionali alle logiche delle società del settore.  Le estrazioni di petrolio e gas producono gravi danni ambientali. Bastano pochi esempi: innanzitutto la situazione in Basilicata, dove c’è la più alta concentrazione di impianti per l’estrazione del petrolio. In Val d’Agri, il lago Pertusillo, accanto al quale sorgono i pozzi di petrolio, mostra acque eutrofizzate, la presenza di notevoli quantità di metalli pesanti ad alta tossicità, presenti guarda caso nei fluidi di perforazione. Si teme che i processi in atto possano contaminare le falde acquifere di un’area imbrifera di grande importanza per l’approvvigionamento umano, per le attività agricole e per l’ecosistema.

Altro elemento è il rapporto di Greenpeace, che ha riscontrato, nei sedimenti marini vicini alle piattaforme, contaminazioni gravi e diffuse da idrocarburi policiclici aromatici e metalli pesanti, che possono risalire nella catena alimentare. Si può aggiungere, come si ricava da altre fonti, che l’inquinamento negli impianti off-shore si determina anche nelle fasi di manutenzione o di sostituzione delle pompe per l’uso del MUD, un fango a base di bentonite con altri additivi chimici che servono a mantenere la pressione idrostatica per evitare l’eruzione dell’idrocarburo. Fanghi che dovrebbero essere recuperati in casse di raccolta da trasferire su rimorchiatori d’altura per essere smaltiti, ma che spesso finiscono in mare, oltre alla parte che può essere assorbita nel sottosuolo del giacimento.

Le attività di prospezione e ricerca presentano per un territorio come l’Italia e per le sue aree marine altri rischi non meno gravi. Le istanze per permessi sulla terraferma in aree ad alto indice di sismicità per le tecniche usate costituiscono un’incognita preoccupante. Nel mare vanno tenute presenti le numerose istanze anche al di fuori delle 12 miglia (ma che intersecano aree di grande pregio ambientale e di delicata morfologia geologica), che se venissero accolte aprirebbero scenari inquietanti. La tecnica di prospezione dell’air gun (esplosione ad alta intensità di bombe d’aria compressa) potrebbe desertificare il mare, oltre a produrre effetti imprevedibili in aree ad alto rischio sismico e vulcanico come il Canale di Sicilia.

Solo una società impazzita può avallare le scelte aberranti delle lobby del petrolio, il cui unico scopo è realizzare profitti, come la storia ha ampiamente dimostrato, senza preoccuparsi dei disastri e delle vittime che tali scelte potrebbero produrre. L’Italia non è un paese da trivellare e i cittadini italiani devono fermare questo perverso disegno votando SÌ nel referendum del 17 aprile per fermare le trivelle. Un primo passo decisivo per cambiare le scelte di politica energetica del nostro Paese avviando una fase nuova per il pieno sviluppo delle energie rinnovabili e pulite, che già oggi rappresentano il 40% della produzione energetica nazionale e che, se innovate e ulteriormente sviluppate, potrebbero creare decine di migliaia di posti di lavoro, preservando nel contempo dallo scempio l’ambiente naturale e la vita.

Salvatore Perna – ilmegafono.org