Sembra destinato a non finire il caso che vede protagonista l’imprenditore ed editore catanese Mario Ciancio, accusato dalla Procura di Catania di concorso esterno in associazione mafiosa e il cui futuro sembra, almeno per il momento, più roseo del previsto. L’inchiesta, nata nel 2010, è stata al centro di polemiche molto aspre per diversi motivi: da un lato, infatti, la famiglia Ciancio si è sempre definita innocente e lungi da qualsiasi collaborazione di tipo mafioso o illegale; dall’altro, invece, una schiera di persone (tra cui molti giornalisti liberi o semplici cittadini ben informati sulla vicenda) che ha urlato a gran voce il nome di Mario Ciancio quale colpevole e figura manipolatrice e autoritaria nel mondo dell’editoria catanese. Insomma, sono stati anni di fuoco, questi, per Ciancio e la città di Catania e le ragioni sono diverse e molteplici.

Innanzitutto, una delle accuse rivolte all’imprenditore sarebbe quella di aver depositato ingenti quantità di denaro all’estero (alias paradisi fiscali quali la Svizzera e le isole Mauritius), per poi aver tentato di farli rientrare in Italia all’oscuro della Guardia di finanza e in maniera del tutto illecita. Proprio in questi anni, il Tribunale etneo è riuscito a sequestrare ben 17 dei 52 milioni depositati in Svizzera, a dimostrazione che qualcosa di illegale è sicuramente avvenuto ed è stato accertato in maniera inequivocabile. L’accusa principale, come già detto, resta comunque quella di concorso esterno alla mafia. Ciancio, secondo gli inquirenti, sarebbe colpevole di aver favorito gli interessi di cosa nostra in diversi modi: il primo in assoluto riguarda la vendita di terreni (resi poi edificabili grazie agli appoggi politici) a società la cui maggioranza dei soci sarebbe stata vicina ai clan mafiosi di Catania.  

Tra questi vi è il caso del centro commerciale Porte di Catania e il Pua (Pino Urbanistico Attivo), un progetto mai realizzato, ma che sarebbe stato affidato alla società “Stella Polare” al cui interno erano presenti Salvatore Modica e Francesco Strano (vicini ai clan dei Laudani e Santapaola).

Infine, per quanto riguarda l’editoria, due sono i motivi che spingono l’imprenditore dalla parte marcia: l’assenza di necrologi in memoria della morte di Pippo Fava (nei confronti del quale il giornale di Ciancio ha spesso rasentato la calunnia) e del commissario Beppe Montana sul quotidiano La Sicilia; la presenza, al contrario, di scritti e pensieri di gente quale Angelo Ercolano (nipote del boss Pippo) e Vincenzo Santapaola (figlio del ben noto Nitto). Insomma, sono tanti i punti oscuri dell’amministrazione di Mario Ciancio, ma sembra che tutto ciò non sia sufficiente.

Il gip di Catania, Gaetana Bernabò Distefano, con una sentenza shock, ha infatti disposto il “non luogo a procedere” perché il fatto “non è previsto dalla legge come reato”. E questo è un punto che, leggendo le motivazioni, lascia attoniti. Secondo la Distefano, nonostante “il grandissimo intuito di Falcone” (al quale si deve l’esistenza del reato di cui sopra), nel caso in particolare “sfuma la distinzione tra concorrente interno ed esterno” e, poiché non esiste una definizione chiara del reato stesso, la situazione attuale “non consente di sostenere l’accusa davanti al Tribunale”, proprio per la “difficoltà di ipotizzare il cosiddetto delitto di concorso esterno in associazione mafiosa”.

Il Gip cerca di salvarsi in calcio d’angolo quando afferma che con ciò “non vuole dirsi che la zona grigia dei cosiddetti colletti bianchi sia una zona neutra”, anzi “si può affermare che il fenomeno è più delicato di quanto non si pensi”. Purtroppo, però, tutto questo non basta per incastrare l’imprenditore catanese e difatti la Distefano ha fatto cadere l’accusa in questione.

All’indomani dell’uscita delle motivazioni, le reazioni non si sono fatte attendere. Se, da un lato, i legali di Ciancio continuano a celebrare una sentenza alla quale non credeva nemmeno l’accusato, dall’altra non si possono certo placare gli animi di chi pensa sia un errore madornale. Nunzio Sarpietro, presidente dell’ufficio Gip di Catania, ha infatti affermato che “la negazione del reato di concorso esterno all’associazione mafiosa dal punto di vista giurisprudenziale è una decisione del tutto personale e isolata della dottoressa Gaetana Bernabò Distefano, poiché tutti gli altri giudici della sezione ritengono il suddetto reato sicuramente ipotizzabile”.

Inoltre, il rischio è che il caso faccia, come si suol dire, giurisprudenza: ovvero che accuse del genere vengano prosciolte e assolte proprio alla luce di quanto accaduto. In effetti, l’assoluzione di Ciancio ricorda un po’ il caso che vide protagonista il procuratore generale Francesco Iacoviello, il quale, in occasione dell’inchiesta che vedeva come soggetto principale Marcello Dell’Utri (poi condannato a sette anni proprio per concorso esterno), ebbe il coraggio di chiederne l’annullamento, poiché si trattava di una “imputazione liquida”, cioè avente basi niente affatto solide e per questo di poca considerazione.

Insomma, la motivazione espressa dal Gip Distefano appare forzosa e discutibile, oltre che pericolosa. Noi, ovviamente,  non siamo nella posizione di discutere la decisione di un magistrato, ma rivendichiamo il diritto di criticarla anche aspramente e di dire che una sentenza del genere faccia soltanto del male alla giustizia di un intero Paese, soprattutto faccia male a chi ha lottato ed è morto per riuscire a toccare quella zona grigia che, con la messa in discussione del reato di concorso esterno, può solo guadagnarci  in  termini di impunità, con buona pace di tutti coloro i quali ancora credono nella giustizia. E continuano a crederci, nonostante tutto.

Giovambattista Dato -ilmegafono.org