A Napoli, nel tardo pomeriggio dello scorso 31 dicembre, mentre nella maggior parte delle case ci si preparava a festeggiare il Capodanno, mentre si cucinava freneticamente o si pensava a cosa indossare per il veglione, otto persone, a bordo di quattro moto, hanno pensato bene di chiudere l’anno in “bellezza” con un raid armato a Piazza Calenda. La pioggia di proiettili esplosi (ad altezza uomo e in due diverse direzioni) ha raggiunto, uccidendolo, Maikol Giuseppe Russo, un ragazzo che sembrerebbe essere stato esterno alle logiche dei clan; semplicemente si è trovato al posto sbagliato nel momento sbagliato, mentre attendeva che il fratello terminasse di lavorare. A poco più di un mese di distanza è quasi inevitabile considerare quel raid camorristico alla stregua di un oscuro presagio.

Nel 2016 ancora ai suoi esordi, infatti, la città del Vesuvio balza continuamente agli “onori” della cronaca per l’assurda spirale di violenza da cui è stata risucchiata: dodici omicidi (di cui tre nell’arco di sole 26 ore) dall’inizio dell’anno, aggressioni a mezzi pubblici e passanti da parte di baby gang e continue rappresaglie armate nei luoghi strategici per gli affari legati allo spaccio e al racket.

Questa recrudescenza dei conflitti della malavita partenopea offre un bilancio talmente apocalittico che sembrerebbe più estrapolato da un qualche sceneggiato alla “Gomorra” che da un reale spaccato di vita. Già solo i numeri, resi noti da un dossier della DIA, sono da pelle d’oca: 110 clan per un totale di 5000 affiliati, senza contare la sempre più frequente collaborazione con la malavita straniera, in particolar modo nella gestione degli affari legati alla droga. Dal dossier emerge inoltre il ritratto di una camorra al passo con i tempi, che gestisce “affari vecchi” implementandoli con le nuove tecnologie, che non incontra difficoltà ad infiltrarsi nei tessuti istituzionali e che ha saputo espandersi, come un cancro, in moltissime regioni d’Italia.

A questo si aggiunga che, nell’arco del 2015, sono stati arrestati circa 180 camorristi, buona parte della vecchia generazione, e che il “vuoto” lasciato da questi arresti ha portato il proliferare di baby gang assoldate dalle vecchie famiglie, soprattutto per la gestione degli affari legati alle sostanze stupefacenti: è la cosiddetta “paranza dei bambini”. Questi ragazzini, in taluni casi ancora bambini, agiscono spesso sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, brandendo armi come esperti sicari e con una violenza che non può essere giustificata neanche in considerazione della loro giovane età. Aggrediscono clochard, vigilesse, macchinisti e loro coetanei, talvolta per rapinarli o per “difendere il territorio”, altre volte solo per il semplice gusto della violenza, per sentirsi forti o per dimostrare agli amici quanto si è “pericolosi”.

Per fronteggiare questa vera e propria guerra di camorra il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, ha proposto l’invio dell’esercito a Napoli e l’abbassamento dell’eta punibile: “Il mondo è cambiato – ha dichiarato Alfano per giustificare la sua proposta – non possiamo credere che a 15, 16, 17 anni non si abbia la piena consapevolezza della gravità di possedere una pistola”. Mentre su questa proposta nessuno si è espresso in maniera nettamente sfavorevole, sull’invio dei militari a Napoli molteplici sono state le reazioni contrarie. Dal sindaco partenopeo, Luigi De Magistris, a Raffaele Cantone, presidente dell’Agenzia nazionale anti-corruzione, da Maurizio Braucci, lo sceneggiatore di “Gomorra”, al procuratore aggiunto di Napoli, Nunzio Fragliasso, sono tutti d’accordo sul fatto che la soluzione non possa essere una mera repressione bensì una “rieducazione” della mentalità di una parte dei cittadini napoletani, spinti dalla disoccupazione e “dall’ignoranza” a non collaborare, a considerare quasi ineluttabile il continuo spargimento di sangue e la convivenza forzata con la paura che il prossimo proiettile vagante possa raggiungere qualcuno che ama.

A Napoli sarebbe dunque più utile una sensibilizzazione sociale, una rieducazione a non accettare passivamente che certe zone sono da evitare o che se nasci in quartieri come Scampia o Forcella sei destinato a diventare camorrista. Una rieducazione che non può prescindere da iniziative politiche. Iniziative che taluno individua nell’adozione di misure di promozione occupazionale e qualcun altro, come Roberto Saviano, nella necessità, ad esempio, di legalizzare le droghe leggere. “Legalizzare le droghe – ha affermato lo scrittore – è l’unica risposta allo strapotere dei clan che inquinano tutto e non permettono al Sud di crescere”. “È inutile- ha continuato Saviano – fingere di non sapere: si spara per l’egemonia sulle piazze di spaccio, le vecchie e le nuove. Bisogna togliere terreno alle mafie, affrontare finalmente i problemi e non girare la faccia dall’altra parte”.

Ancora diverse e più complete le soluzioni individuate da Arnaldo Capezzuto, il giornalista minacciato dalla camorra per le sue inchieste sul quartiere Forcella. “Bisogna- ha recentemente scritto in un suo articolo – starci accanto a questa città, viverla, soccorrerla usando fermezza e non pietà”. “Penso – scrive ancora Capezzuto – all’obbligo scolastico, al sottrarre i minori dalle famiglie con pregiudicati, al mettere in campo politiche di inclusione sociale, all’elaborare progetti di sostegno sul medio e lungo periodo, alla bonifica dei quartieri e delle periferie, all’asciugare la disparità delle tante città dentro la città, al contrastare la povertà con iniziative forti. Restituire dignità e futuro”.

Probabilmente la giusta terapia per una Napoli più sicura è una combinazione di tutte queste soluzioni. Un maggior impegno sincronico di operatori culturali, assistenti sociali, insegnanti, preti, forze dell’ordine e organi di informazione. Una rivoluzione culturale che forse tarderà ad avviarsi finché i mass media si occuperanno di Napoli solo quando ci sono i morti e fino a quando la televisione continuerà a trasmettere serie televisive come la nuovissima “Milionari”, che, con il pretesto o il falso convincimento di raccontare la camorra per farla conoscere, rischia spesso l’effetto opposto di mitizzarla ulteriormente.

Anna Serrapelle- ilmegafono.org