Questo articolo nasce da una mail di un nostro lettore, evidentemente piuttosto attento e informato, che ci ha fatto notare che non si parla mai di Giovanni Motisi. In effetti, in molti resteranno un po’ perplessi leggendo questo nome, faranno fatica ad associargli un volto o anche solo un ruolo. Eppure si tratta di un pericolosissimo boss, latitante dal 1998, ricercato (anche in ambito internazionale) per omicidi, associazione mafiosa, racket e strage, tanto da figurare nella lista dei trenta latitanti più pericolosi, redatta dal Ministero dell’Interno. Una “carriera” di tutto “rispetto” la sua: nipote del già importante boss Matteo Motisi, Giovanni, detto “u pacchiuni”, faceva parte dei killer di cui si avvaleva Totò Riina. Nel cercare informazioni sul suo conto ci si imbatte però in un assordante silenzio. Scarsissime notizie e molto poco approfondite.

Mentre di altri boss sappiamo tutto, anche cosa mangiano o come vestono (quasi fossero dei concorrenti di qualche reality), Motisi è mediaticamente avvolto da una fitta nebbia. La notizia più recente e più dettagliata sul suo conto sembrerebbe essere quella del ritrovamento, nel 2011, a Casteldaccia (Pa), di alcune foto personali che lo ritraggono con le figlie; notizia tutt’altro che trascurabile a livello investigativo, perché ha permesso di escludere l’ipotesi della sua morte. Facendo ricerche su Motisi è capitato di imbattersi in un’altra storia, completamente diversa, una storia di coraggio e dignità, che ha però in comune, con quanto scritto sino ad ora, l’ambito mafia e il silenzio. È la storia di Giuseppe e Paolo Borsellino.

Non il Paolo Borsellino che tutti conosciamo, il giudice antimafia morto nella strage del 1992, Giuseppe e Paolo erano padre e figlio, piccoli imprenditori (avevano un impianto di calcestruzzi a Lucca Sicula) che fecero “l’errore” di non scendere a compromessi con la mafia (che voleva acquisire la loro impresa) neanche quando cominciarono a subire le prime vessazioni (camion dell’impresa incendiati e alberi della loro campagna abbattuti). Così, il 21 aprile 1992, il giovane Paolo Borsellino fu ucciso a colpi di fucile. “Presentava – recita il verbale stilato quella notte dai Carabinieri – una rosata di pallettoni all’altezza dello sterno e le dita mignolo ed anulare della mano sinistra spappolate all’altezza della terza falange”. “La mano – continua la relazione – era stata verosimilmente protesa in un vano e disperato tentativo di difesa”.

“Quello che è accaduto – è il commento a questo documento di Benny Calasanzio, nipote di Paolo (suo zio) e Giuseppe Borsellino (suo nonno) – ci ha cambiati tutti. Siamo sopravvissuti, ovvero abbiamo vissuto oltre. Rimarremo per sempre orfani e lacerati. No, non saremo mai normali”. Una “anormalità” giustificata anche dal fatto che, solo otto mesi dopo, il 17 dicembre di quello stesso anno, di quel 1992 in cui la mafia ha mostrato tutta la sua ferocia versando tantissimo sangue, fu ucciso nella piazza del suo paese (una piazza affollata, triste e doveroso da sottolineare) anche Giuseppe Borsellino, colpevole di non aver “mollato”, ma anzi di aver fatto pressioni affinché fossero fatte indagini serie sull’omicidio del figlio.

Tutto questo dolore non ha piegato la famiglia Borsellino che continua, fiera, a lottare raccontando la storia dei loro due cari uccisi per la loro onestà e per la loro fiducia nella giustizia. Ma, come se la mafia non avesse lasciato abbastanza cicatrici nelle loro anime, recentemente è avvenuto un episodio che li ha feriti enormemente. Benny, tramite la propria bacheca facebook, ha pubblicato il verbale sopracitato in ricordo del proprio zio ed è stato presto “richiamato” da un suo “amico” (?) virtuale per non aver precisato che il Paolo Borsellino cui si faceva riferimento non era il più famoso giudice antimafia. Quasi a voler sottintendere che la mafia faccia vittime di serie A e vittime di serie B, e che questa distinzione sia dettata non tanto dal coraggio della persona uccisa ma più che altro dal numero di volte in cui i media si sono occupati della vicenda.

Un commento certamente figlio di grande insensibilità e di questa nostra società in cui se non sei famoso, se non appari, è come se non esistessi. “È dura amici, è dura, fidatevi di me” è stato l’unico commento, comprensibilmente deluso, di Benny sull’intera vicenda, mentre sua madre, Antonella Borsellino, si è detta “sconcertata e amareggiata” perché “noi non siamo ‘Borsellino’, i parenti del giudice, ma sono la sorella e figlia di due illustri anonimi imprenditori uccisi dalla mafia”. Tutto questo ci ha portato a riflettere e a cambiare argomento dell’articolo;  questa settimana scrivere di legalità doveva necessariamente significare scrivere di silenzio. Del silenzio che può erroneamente portare a non temere un boss sanguinario (al contrario, il troppo silenzio in questo caso è altamente sospetto e ha il sapore di un grande potere che ha imparato a nascondersi) e, allo stesso tempo, a sottovalutare il grande coraggio di due persone oneste che hanno perso la vita eroicamente per non accettare compromessi.

Sarebbe necessario, almeno quando si affrontano tematiche particolari come mafia e antimafia, superare la logica della popolarità, ricordarsi che il silenzio e l’omertà sono stati da sempre i più grandi alleati della proliferazione mafiosa e comprendere che i carnefici sono tutti carnefici e le vittime tutte vittime, tutti esseri umani coraggiosi che, ognuno nel proprio settore e con le proprie competenze, hanno portato avanti una grande battaglia di cui tutti noi beneficiamo ogni giorno. Impariamo dunque a ringraziare e, soprattutto, a rispettare ognuno di questi uomini e queste donne che hanno fatto fino in fondo il proprio dovere.

Anna Serrapelle- ilmegafono.org