Come il ciclo delle stagioni che tornano sempre, anche il tema dei fannulloni si ripresenta di tanto in tanto all’attenzione dell’opinione pubblica. Sia chiaro: non ci si riferisce a politici, ministri, parlamentari, deputati regionali e così via, ma a quei dipendenti della Pubblica Amministrazione che, fra truffe e assenteismi vari, finiscono nel cuore di qualche inchiesta suscitando scandalo e innescando un meccanismo selvaggio di indignazione rabbiosa, generalizzazioni, sentenze inappellabili per chiunque, indipendentemente dalla propria rettitudine, faccia parte di un dato settore. Il governo Renzi, dopo il famigerato “jobs act” con il quale annunciava di voler debellare precariato e disoccupazione (effetto fallito), ha ora deciso di intervenire in maniera restrittiva su quella parte di lavoratori del settore pubblico che, oltre a non fare il proprio dovere, aggiungono la condotta fraudolenta a danno della macchina statale.

Una misura “suggerita” dai vari casi che spesso sono finiti sulle prime pagine della cronaca nazionale e rispetto ai quali il governo sente l’urgenza di agire, nonostante ci siano già, come sostiene il segretario della Cgil, Susanna Camusso, norme che sanzionano il lavoratore che commette violazioni gravi rispetto ai propri doveri e alla condotta richiesta. Il dibattito si è subito acceso, con la solita nevrosi alimentata dai mass media, con fazioni agguerrite e contrapposte, con il consueto abuso, in tv, di vox populi che, ovviamente, danno ragione alla mossa che Renzi ha strategicamente rivolto proprio al popolo e alla sua apparente fame di legalità e di giustizia. Dopo le schermaglie sul jobs act, si torna dunque, per qualche giorno, a parlare di lavoro. O meglio di lavoratori.

Ancora una volta, però, il punto di osservazione è opposto a quello che ci si attenderebbe in un Paese nel quale i diritti del lavoro sono stati pian piano compressi e destrutturati, segnando un pericoloso ritorno al passato, per di più in un contesto economico, come quello attuale, caratterizzato da un rapido e profondo cambiamento. Si preferisce, infatti, mettere al centro dell’agenda politica (e di conseguenza mediatica) la questione dei fannulloni, ossia una categoria di lavoratori, divenuti, come dentro a una saga di Pennac, il capro espiatorio di tutti i mali che affliggono il mondo del lavoro. Per carità, chi sbaglia paga, quindi se un impiegato pubblico viola le regole basilari connesse al suo ruolo, va punito dalla magistratura e dalla propria amministrazione di appartenenza, ma questa è una cosa che già di fatto avviene.

Ciò che lascia perplessi e irrita, però, è il fatto che si continui a parlare solo degli aspetti negativi dell’universo dei lavoratori, di alcune mele marce, senza mai affrontare invece temi più urgenti come la riduzione o assenza di diritti, il regime di illegalità nel mondo dell’impresa, le responsabilità gravissime di parte degli imprenditori, le discriminazioni verso ampie categorie di lavoratori sollecitate dalla smobilitazione delle tutele, la precarietà selvaggia figlia di normative e scelte politiche irresponsabili alle quali non si è smesso di affidarsi e via discorrendo. Mai un’attenzione sostanziosa al mondo del lavoro in sofferenza, nessun intervento legislativo del governo contro lo sfruttamento, il precariato, l’ingiustizia diffusa, nessuna grande spinta culturale che rimetta in discussione i modelli economici dominanti. Gli stessi sindacati, che ovviamente si oppongono al provvedimento, non riescono a compiere azioni tali da costringere l’opinione pubblica e l’esecutivo a porre al centro il tema del lavoro nel suo insieme, al di fuori di singole difese di parte.

La Cgil, che è l’unica grande organizzazione sindacale degna di nota in questo momento di debolezza e di disunità, non è ancora riuscita ad adeguarsi al cambiamento in atto, non tanto nel lavoro, quanto nella società, nella condizione, anche psicologica, relazionale e sociale, dei lavoratori. C’è da riedificare, dalle basi, la cultura dei diritti, della solidarietà sociale, del rifiuto di un individualismo paludoso e di una rassegnazione dilagante, e rilanciare con forza forme di lotta sindacale e culturale che guardino avanti senza dimenticare un passato importante e senza mai cedere a chi continua a far credere al popolo che i lavoratori siano il vero problema, l’ostacolo allo sviluppo, e che il ruolo del sindacato non serva più, non abbia più senso.

È un lavoro culturale e politico, complesso ma necessario, che avrebbe bisogno anche di personalità e intellettuali che, però, oggi sembrano essere rinchiusi in un silenzioso scantinato di qualche sperduto castello o nei locali oscuri della rassegnazione. È una questione che riguarda anche chi fa informazione, perché, dinnanzi ai soliti battibecchi e al tema stantio e sterile dei fannulloni, bisognerebbe per una volta rilanciare con pagine di inchieste su sfruttamento, discriminazioni, violazioni sulla sicurezza, illegalità compiute da chi ha in mano un’impresa e un potere contrattuale che, oggi, grazie ai ripetuti regali di chi ha governato e governa, è ancora più esteso e crudele.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org