A due settimane dall’assalto terroristico nel cuore di Parigi, da quei giorni nei quali da quasi tutti i governi dei paesi occidentali e mediorientali arrivavano appelli (con maggiore o minore convinzione) all’unità nella lotta al terrorismo dell’IS, il fronte virtualmente compatto scricchiola e ripropone le stesse problematiche che hanno portato all’avanzata dello Stato Islamico dall’Iraq fino alla Siria.

Il recente caso dell’aereo russo abbattuto dalla Turchia mette in evidenza il complesso e frastagliato sistema di rapporti e influenze relativamente alla Siria e al conflitto in corso, che vede in campo, da un lato, Assad e le sue truppe, con il sostegno di Russia e Iran (e della Cina), dall’altro, i ribelli siriani (armati dagli USA contro Assad), ma soprattutto l’IS (foraggiato da parecchi stati, su tutti l’Arabia Saudita).  In mezzo, i kurdi dell’YPG (osteggiati da IS, Turchia e Stati Uniti), che hanno resistito eroicamente alla violenza dei miliziani fondamentalisti, conquistando la città di Kobane e liberando la regione del Rojava, nel Kurdistan siriano. In uno scacchiere internazionale stracolmo di ambiguità, con molte prese di posizione solo di facciata, un ruolo centrale lo occupa sempre la Turchia del presidente Recep Tayyip Erdogan.

La vicenda dell’aereo russo è stata vissuta da Putin come una tremenda provocazione, “una pugnalata alle spalle”, un’offesa che Mosca non potrà dimenticare. Le accuse della Turchia sullo spazio aereo violato e sugli attacchi ai turcomanni che vivono al confine con la Siria e quelle russe sull’appoggio turco all’IS e sulla partecipazione dei turcomanni alle milizie del terrore, sono solo l’ultima fiamma di un incendio che sta bruciando l’area e accrescendo la tensione fra le varie potenze mondiali. Gli USA e la Nato stanno con Erdogan e avvertono la Russia, che, dal canto suo, non intende abbandonare la sua vecchia posizione di difesa del governo siriano e di contrasto a ribelli e terroristi.

Insomma, dopo tutte le parole, dopo l’annunciata e condivisa volontà di sradicare lo Stato Islamico, la realtà rimane sempre la stessa, con i soliti attori coinvolti e le solite posizioni egoistiche. Gli Stati Uniti vogliono rovesciare Assad, la Russia e l’Iran vogliono una transizione pilotata che mantenga intatti i loro interessi e le aree di influenza, la Turchia vuole la caduta di Assad e soprattutto l’annientamento dei curdi siriani (nonché di quelli iracheni), collegati al PKK turco, che Turchia e USA considerano una formazione terroristica. Il timore di Erdogan è che, all’interno dello stato turco, soprattutto dopo l’eroica vittoria dei curdi a Kobane (dove hanno combattuto e combattono anche molti volontari turchi) e nella regione del Rojava (che si è proclamata regione autonoma), il fronte filo-curdo, rappresentato dall’HDP (Partito Democratico del Popolo) possa crescere ancora.

In nome di questo suo obiettivo primario, Erdogan ha trasformato la Turchia in un corridoio di passaggio libero di militanti dell’IS e di foreign fighters verso la Siria, sostenendo di fatto l’avanzata dei miliziani nella nazione del presidente Assad. La battaglia contro i curdi e i bombardamenti contro il PKK in Iraq, Turchia e Siria hanno favorito l’IS e indebolito il fronte curdo, che, però, nell’indifferenza della comunità internazionale, è stato l’unico a scacciare i fondamentalisti e a liberare un’intera area, mentre le forze armate o addestrate dagli americani sono cadute miseramente. Non solo: anche internamente il presidente turco si è dato da fare con arresti di oppositori politici e repressioni violente, in una Turchia che per mesi, durante tutto il periodo che ha preceduto le elezioni vinte ugualmente da Erdogan, ha vissuto nel terrore e nella violenza.

La stessa strage di Ankara, a ottobre, dove un attentato ha ucciso un centinaio di persone che manifestavano per la pace e contro la violenza sui curdi, da molte parti, all’interno del paese ottomano, viene attribuita ai servizi turchi e alla volontà dello stesso Erdogan. L’ambiguità del presidente turco, che ora ufficialmente, dopo le tante e aperte accuse di favoreggiamento dei terroristi, dichiara guerra all’IS, prestando anche le basi per azioni aeree contro le loro postazioni in Siria e Iraq (utilizzate in realtà di più per raid contro il Pkk), è talmente evidente che la scelta della comunità internazionale di mantenere Antalya, in Turchia, come luogo del G20 svoltosi la settimana scorsa, nell’immediato dopo Parigi, risulta grottesca e infelice.

Infelice come il fatto che, mentre il mondo era sotto shock per le azioni tremende a Parigi e in Mali, a quel G20 si parlasse di lotta allo Stato Islamico alla presenza di un paese come l’Arabia Saudita, che, oltre a non rispettare i diritti umani e a condurre un violento e non riconosciuto conflitto in Yemen, finanzia tutte le cellule terroristiche (da Al Qaeda all’IS) che stanno insanguinando il mondo. Come attendersi allora qualcosa di buono da un’alleanza che mette al primo posto gli interessi legati alle proprie posizioni di forza sul piano geopolitico esterno e alla contemporanea conservazione del potere sul fronte interno?

Si sta giocando una partita a Risiko nella quale la tensione è funesta e il primo che lancia un dado deve fare i conti con gli isterismi di chi non vuole che si cambino gli equilibri. Una partita nella quale nessuno intende rinunciare a niente e nella quale a rimetterci, come sempre, saranno le popolazioni massacrate dall’IS, dalle bombe e dall’isolamento. Popolazioni costrette a scegliere tra la morte, la lotta armata o la fuga verso l’Occidente. Proprio come aveva fatto la famiglia di Aylan, il bambino fotografato morto sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia. Una famiglia curda scappata proprio dall’inferno di Kobane, dalle violenze dell’IS, di cui la Turchia e l’Occidente, mostratosi commosso per quella immagine, sono complici.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org