Siamo a quattro, ma le cose non cambiano. A Vito Galatolo, Carmelo D’Amico e Antonino Zarcone si è adesso aggiunto un quarto collaboratore di giustizia, l’ex boss palermitano Vincenzo Chiarello, che ha confermato l’esistenza di un preciso progetto di attentato contro il giudice Nino Di Matteo. Imminente o meno, il tritolo è comunque a Palermo, già pronto e ben custodito. Si aspetta il momento giusto, forse il benestare di qualche livello superiore, o forse si aspetta soltanto che l’opera di isolamento del magistrato da parte delle istituzioni, detonatore necessario per ogni attentato mafioso ben riuscito, venga del tutto completato. Ciò su cui non ci sono dubbi è che cosa nostra vuole uccidere Di Matteo.

La notizia è di quelle che negli anni immediatamente successivi alle stragi del 1992 avrebbe fatto il giro del mondo, invaso giornali, telegiornali, trasmissioni tv, attivato messaggi e azioni di solidarietà, anche solo di facciata, da parte delle istituzioni. C’era ancora l’effetto emotivo delle bombe, dei morti, dei funerali. Oggi la mafia non esiste più per gran parte dell’opinione pubblica. O meglio, esiste solo quando spara, quando le pallottole vagano per le vie delle città, quando il corpo è già a terra circondato da tute bianche e nastri della polizia. Soprattutto, la lotta alla mafia non è più al centro dell’interesse politico, mentre i movimenti antimafia in parte sembrano schiacciarsi sugli egocentrismi e sulle schermaglie interne e tutte personali, facendosi sentire e vedere solo in occasione delle commemorazioni e degli anniversari. Insomma, su Di Matteo rimane quell’appiccicoso silenzio che fa più rumore di qualsiasi parola.

Attorno a lui e alla sua vicenda si è creata un’indifferenza pericolosa, subdola, inquietante. Sembra essere tornati alla seconda metà degli anni ’80, quando il pool di Palermo aveva pochi sostenitori e tantissimi detrattori, soprattutto all’interno della magistratura e delle istituzioni. Le allusioni cattive, le opinioni denigratorie espresse sotto traccia erano una pratica costante che faceva da eco sottile alle accuse ufficiali, quelle che provenivano da certe penne illustri o dalla politica, da chi dipingeva scenari infami dentro cui infilava presunti personalismi, falsi attentati auto-organizzati, brame di potere e altre volgarità. Non è cambiato nulla. Nino Di Matteo è il bersaglio delle stesse sottili allusioni e altri quadri vengono dipinti ogni giorno dentro le sale d’arte delle procure, tra le stanze del Csm e della politica, dentro le redazioni dei giornali e perfino nei locali riparati dell’antimafia. Serpeggiano logiche e idee troppo irresponsabili per poter essere espresse apertamente.

Logiche secondo cui il giudice palermitano starebbe usando i pentiti per farsi considerare bersaglio e fare carriera in magistratura o per dare maggior valore e credibilità al processo sulla trattativa Stato-mafia, che i soloni detrattori etichettano come un processo fondato sul nulla e che nulla ha prodotto, dimenticando artatamente che invece ci sono stati rinvii a giudizio, condanne, sentenze. La solita storia italiana che non ragiona nemmeno sul fatto che Di Matteo di carriera non ne sta facendo minimamente, che anzi è stato sempre più isolato, che il Csm ha utilizzato qualsiasi mezzo pur di non farlo andare (come meritava per titoli, carriera e anzianità) alla Procura nazionale antimafia, che la politica lo ignora, snobbando i rischi che corre e tergiversando sugli strumenti di sicurezza necessari per proteggere lui e la sua scorta. Ma quello che fa male e al contempo rumore, come abbiamo avuto modo di scrivere più volte su queste pagine (e continueremo a farlo fino a quando le cose non cambieranno), è l’assenza di una solidarietà anche simbolica a Di Matteo da parte dei vertici di questo Stato.

Se l’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha mostrato persino ostilità per Di Matteo e i magistrati palermitani che indagano sulla famigerata trattativa, il suo successore Mattarella ha scelto invece il silenzio, il totale distacco. Non una dichiarazione di sostegno, non un commento preoccupato su quanto i pentiti (quattro e non uno) stanno raccontando, non una visita per testimoniare vicinanza e impegno comune. Zero. E non ci sono scuse, considerando soprattutto la storia personale e familiare del Capo dello Stato. Non parliamo poi del governo, né tantomeno dell’antimafia “ufficiale”, che oggi appare timida, priva di iniziativa e che forse non ha capito bene quale eco e quanta preoccupazione una vicenda simile dovrebbe produrre. Rimane solo la gente comune, i tanti cittadini, alcune associazioni, qualche giornalista indipendente. Nient’altro.

Il tritolo è a Palermo, non è stato ancora trovato, ma è già a Palermo. Evidentemente la mafia sta solo aspettando, sta cercando di fare le valutazioni del caso, come è sempre stato. Come fu per Capaci e via D’Amelio. Se qualcuno pensa che una strage di Stato si organizzi in un giorno o in una settimana e non venga invece pianificata a lungo, discussa, valutata, preparata smuovendo i contatti utili, allora non ha capito nulla. Se qualcuno ritiene che questa storia sia un’invenzione solo perché se ne parla da tempo ma non c’è ancora stato lo scoppio, allora è meglio che vada a studiare di più invece di ciarlare a vanvera.

Di Matteo è un uomo solo, drammaticamente solo. Per tale ragione è diventato un bersaglio facile. I responsabili del suo isolamento sono noti e siedono nei tribunali, al Csm, in parlamento, al governo, negli uffici di vertice delle istituzioni. E anche nelle redazioni e persino in qualche salotto buono dell’antimafia. Si sappia che questo silenzio, condito da malelingue e veleni subdoli, non salverà nessuno. Qualunque cosa accada. Perché, come scriveva e cantava l’indimenticabile De Andrè, “per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti”.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org