Non ti abitui mai a certe immagini, anche se ti sei già trovato davanti molte volte, fisicamente, a delle ingiustizie vergognose commesse a danno dei migranti e hai masticato rabbia, protestato, denunciato. Quelle immagini riescono ugualmente a farti male, scuotono, spingono fuori dagli occhi lacrime pesanti che non riesci a fermare. Non provi nemmeno a muovere le mani, perché anch’esse sono divenute simbolo di un mondo che gira al contrario. Mani in faccia, non uno schiaffo, né un gesto di disperazione. Quelle mani in faccia sono l’emblema dell’Europa che respinge e che, nel farlo, vorrebbe anche coprire, cancellare quei volti, quelle storie e ricacciarli lontano, chiudendo le frontiere, auspicando che i regimi da cui fuggono possano rendere impossibili le vie di uscita, impenetrabili i confini. Una logica nazista, in base alla quale non importa che fine faranno quegli esseri umani, se subiranno torture, violenze, se moriranno assassinati. L’unico pensiero delle nazioni europee è quello di non permettere che il frutto delle colonizzazioni, la conseguenza dei grandi affari degli armamenti, i figli delle guerre foraggiate vengano a chiedere aiuto e protezione.

Allora guai a lasciarli passare, meglio costruire muri, respingere, lasciare che la loro fatica si sfianchi ancora di più davanti alle chiese (molto spesso chiuse), alle stazioni, tra i marciapiedi-letto e i gradini-cuscino, tra le aiuole umide di pioggia, sotto i lampioni accesi e i palazzi spenti. Meglio lasciarli tra gli scogli di Ventimiglia, sul bordo di una frontiera che di solito conduce ai lustrini e alle roulette della Costa Azzurra, ai suoi hotel lussuosi, a quelle barche eleganti così diverse da quei malconci scheletri di legno e lamiera che diventano ponti traballanti, costosi e disumani, per traversare il Mediterraneo.

Le mani in faccia, per far capire che loro non devono guardarsi troppo attorno, né familiarizzare con i luoghi, con le speranze di una vita normale, con i sogni di ricongiungersi con amici e parenti già arrivati in altre zone d’Europa. Quegli occhi non devono vedere, vanno bendati con i guanti dei poliziotti, con la stretta di quegli uomini in divisa che riaprono incubi e dolori nel cuore e nei ricordi di chi da altri uomini in uniforme ha subito di tutto e da loro è scappato affidandosi al mare, al destino, a Dio. Le telecamere ci hanno raccontato di una frontiera piena di divise, di uomini che, in lingua italiana, cercano di convincere gli eritrei a salire sui pullman. E chissà cosa sarebbe accaduto senza le telecamere e i fotografi. Mi scuseranno i dirigenti delle forze dell’ordine, gli agenti intervenuti e i loro sindacati per il mio sospetto, ma la mia fiducia nel loro modus operandi, quando si tratta di migranti, è molto bassa.

Ancora più bassa è la considerazione per la politica italiana, per le parole disumane, le strumentalizzazioni, gli accostamenti ignobili, gli annunci e le promesse di solidarietà buttate sulle colonne di un giornale per nascondere probabili accordi indecenti con i regimi responsabili di massacri e orrori. Il finto dolore di quel 3 ottobre 2013 a Lampedusa e dei successivi naufragi ha lasciato frettolosamente spazio alla spietata strategia di risolvere tutto con il metodo più facile: nascondere ciò che avviene, mettere un bel lenzuolo scuro sopra la sofferenza, i diritti violati, la violenza, la morte, le nostre tremende responsabilità. Affondare i barconi, fermare le partenze, rimpatriare: questa è la ricetta europea, la “strategia comune”. In poche parole, tenere tutto fuori dalla nostra porta, anche se il cortile su cui si affaccia è pieno di nostri rifiuti, di carcasse di potere, di armi, affari, traffici. Tutto rimanga fuori, mentre noi sigilliamo la nostra fortezza, tappando anche gli spifferi, non sia mai che il puzzo delle nostre colpe marce possa raggiungere le nostre tavole imbandite e le nostre poltrone comode.

“Aiutiamoli a casa loro”, questa è la perversione della politica europea. E di quella italiana. Come se davanti all’incendio da noi provocato alla casa di un vicino costato la vita alla sua famiglia, pensassimo di rifiutare di risarcirlo e ospitarlo e pretendessimo di farlo tornare a vivere nelle stanze carbonizzate e piene dell’odore acre della morte, sotto pilastri caduchi e pronti a crollargli in testa. E che non rompa più! Nessuno si impressioni, perché è quello che stiamo facendo, anzi è pure peggio, visto che in questa realtà odierna il nostro vicino, prima di poter parlare con noi e chiederci conto, deve anche subire pestaggi, stupri, umiliazioni, rapine e un lunghissimo viaggio tra deserto e mare. Credo che se il vicino fosse uno qualsiasi di noi, a quel punto, sicuramente si farebbe giustizia da solo scannando il responsabile della sua tragedia. E ne avrebbe tutte le ragioni.

Questa gente, invece, non chiama vendetta, non vuole riscuotere risarcimenti, chiede solo di vivere in pace, ricostruire la propria vita, trovare riparo e cercare pian piano di allontanare il dolore e gli incubi che ha vissuto. Ci tende una mano e ci chiede di afferrarla e camminare insieme, alla pari, in amicizia e solidarietà. Ed è la cosa più bella che i migranti mi hanno insegnato. Penso al gruppo di eritrei e a soprattutto a uno di loro (di cui ometto il nome per ovvie ragioni di privacy), il quale mi ha raccontato una storia terribile, un’odissea inimmaginabile anche per chi, come me, di storie di viaggi, morte e speranza ne ha sentite e raccolte tantissime. Penso ai suoi amici, ai parenti che verranno, alla speranza di andare in Germania, Belgio, Svezia, Francia, Inghilterra e in tutti quei paesi nei quali hanno degli affetti che li attendono.

Ho pensato a loro mentre sentivo le urla di chi si trovava tra le braccia dei poliziotti e non voleva entrare in macchina o nei pullman. Ho pensato ai lavori o agli studi che svolgevano in patria, ai loro matrimoni, all’amore, ai sorrisi, alle opinioni, ai libri, ai giochi, alla voglia di scrivere, alle carezze, a tutta quella quotidianità spezzata dalle paure, dalle minacce, dalle torture, dalla morte. Ho pensato a come questa gente non immagini quanto possa essere crudele un’Europa che da lontano si veste con abiti civili. Ho pensato a quanti immigrati italiani si sono sparpagliati per il mondo e a quanta ricchezza umana, economica, spirituale e culturale un migrante può regalarci in cambio di un diritto sacrosanto, quello alla vita e alla dignità.

Questa ricchezza, invece, noi italiani ed europei la stiamo allontanando, malmenando e sgomberando. In nome di cosa? In difesa di cosa? Di una società individualista nella quale i diritti vengono calpestati ogni giorno da chi comanda? I migranti non sono né invasori né delinquenti o approfittatori, ma sono la nostra salvezza, perché con la loro resistenza pacifica, con il loro non arrendersi, ci stanno dimostrando che anche nel più totale isolamento rivendicare un diritto tutti insieme è possibile. Come a Rosarno qualche anno fa, oggi a Ventimiglia i migranti ci stanno spiegando che della nostra rassegnazione da benestanti non dobbiamo incolpare nessuno a parte noi stessi. E che le mani in faccia, noi, ce le stiamo mettendo da soli senza provare a resistere. Come Paese, come popolo e come individui. Sputando sulla nostra stessa memoria e urinando sulla sua parete più pulita.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org