Nei giorni precedenti al 71esimo anniversario dell’eccidio delle Fosse Ardeatine il caso ha voluto che mi trovassi a Budapest, la capitale ungherese segnata violentemente dall’occupazione nazista e, successivamente, dal regime comunista sovietico. Attraversare le vie di Budapest significa avere un costante confronto con la storia europea, vivere da vicino la tragedia dei totalitarismi, sentire la voce di un popolo dalla storia antica che è riuscito, nonostante tutto, a costruire una nazione moderna. La democrazia ungherese ha conosciuto un black-out durato mezzo secolo e oggi il suo popolo, malgrado l’attuale, preoccupante direzione destrorsa e reazionaria del premier Viktor Orbàn, sembra non essere disposto a tornare indietro. Soprattutto, non sembra voler accettare facilmente logiche revisioniste o falsificazioni riguardo a quanto è accaduto nel passato.

Così, a Budapest, oltre agli spazi, ai musei e ai monumenti in memoria dell’Olocausto (come la Sinagoga con il suo memoriale, la Passeggiata delle Scarpe sul Danubio, o la Casa del Terrore, che ricorda anche le violenze del regime sovietico), può capitare di trovarsi davanti a luoghi che sulla cartina o sulle guide non appaiono ma che finiscono per assumere, agli occhi di chi vi si trova davanti, un significato intenso. Come quello che si trova in Szabadság tér, una piazza alle spalle dell’elegante Andrassy Út, il lungo viale che conduce all’immensa piazza degli Eroi. In Szabadság tér, nel luglio del 2014, dopo mesi di proteste e polemiche, è stato eretto, in piena notte, un monumento in memoria delle vittime dell’occupazione nazista.

Il monumento è stato voluto dal primo ministro Orbàn (ex liberale e progressista, oggi su posizioni conservatrici, antieuropeiste e reazionarie), per ricordare che l’indipendenza di una nazione la tutela da conseguenze tragiche, come quelle legate all’invasione nazista, ma anche alla successiva sottomissione al regime comunista. Si tratta di una statua raffigurante l’arcangelo Gabriele sovrastato dall’aquila nazista che sta per aggredirlo. L’arcangelo simboleggia l’Ungheria ed è ignaro dell’assalto che sta per subire. E sta proprio qui il nodo della polemica. Numerosi cittadini ungheresi, le comunità ebraiche, i parenti delle vittime delle deportazioni e degli eccidi nazisti hanno reagito, facendo picchetti per cento giorni e smontando quotidianamente le barriere di protezione del monumento, la cui installazione è slittata per mesi, fino a luglio scorso, quando in notturna la statua è stata posata.

I cittadini ungheresi hanno continuato a contestare quella che è apparsa come una palese rilettura della storia, dal momento che l’Ungheria non è stata una vittima ma una corresponsabile, non un ingenuo arcangelo aggredito alle spalle, ma un complice consapevole dell’occupazione nazista e della deportazione ed eliminazione fisica di ebrei, rom, omosessuali, oppositori politici. Il governo ungherese dell’epoca, retto dall’ammiraglio Horthy, collaborò infatti pienamente con i nazisti nell’organizzare le deportazioni; inoltre, le croci frecciate di Szálasi, che presero successivamente il timone e compirono massacri, eccidi di massa, in perfetta aderenza alla logica nazista dello sterminio, erano ungheresi. Ecco perché quel monumento è bugiardo, visto che non richiama minimamente le responsabilità gravissime del popolo ungherese in quel decisivo momento storico.

Per tale ragione, davanti a quella statua è stata installata una sorta di totem di legno alle cui spalle (e sui due lati) si estende una fila di foto, documenti, oggetti appartenuti alle vittime della violenza nazista. Una presa di coscienza coraggiosa e necessaria per non distruggere il senso di una memoria che, in molte parti di Europa, va sempre più sbiadendosi, lasciando così il campo a pericolosi rigurgiti nazifascisti. I cittadini ungheresi, con la loro azione, sono riusciti a neutralizzare quel monumento che il governo alla fine ha deciso di non inaugurare, viste le polemiche. Oggi, per fortuna, quando arrivi in quella piazza, risalta di più l’installazione posta dagli attivisti, capace di offuscare con il senso vero della memoria l’intento bugiardo del premier.

Leggendo questa storia, raccontata da un foglio appeso alle travi del “contro-monumento”, mi è venuto da pensare all’Italia, a quanto questa presa di coscienza non sia ancora dominante, a quante volte ho sentito persone di ogni livello culturale ed estrazione sociale ripetere che Mussolini non era Hitler, che gli italiani hanno aiutato tanti ebrei o che gli italiani erano fascisti solo perché obbligati ad esserlo, o ancora che il fascismo ha commesso l’unico errore di allearsi con Hitler altrimenti sarebbe durato a lungo e avrebbe continuato a fare “le cose positive che stava facendo”. O ancora che qui i campi di concentramento non li abbiamo mai fatti. Circa dieci anni fa, mi trovai persino a seguire, per conto di un giornale, la questione della proposta di legge presentata da Alleanza Nazionale per equiparare i combattenti della RSI ai partigiani del CLN. In pochi si opposero e si indignarono nel Paese per una proposta di legge che per fortuna non passò.

Insomma, noi italiani siamo sempre convinti di essere meglio di quel che siamo, rifiutandoci spesso di guardarci in faccia e di guardare allo specchio la nostra storia. Una storia tragica, fatta di colonizzazioni e di inaudite violenze in Africa, di leggi razziali, di violenze politiche interne, di soprusi, di distruzione di ogni libertà. Con un popolo che in gran parte era fascista con convinzione. Il fascismo ebbe larghi consensi e ispirò Hitler, Mussolini fu il modello a cui il dittatore tedesco attinse, le deportazioni furono volute e organizzate dai fascisti, la Repubblica di Salò era retta da fascisti italiani che si macchiarono di eccidi e stragi, a Trieste esisteva anche un campo di concentramento, la famigerata Risiera di San Saba (spesso purtroppo incontro persone che non ne sanno nulla), dove i prigionieri (oppositori politici ed ebrei) venivano smistati verso altri lager, oppure uccisi e i loro corpi cremati.

Questa è memoria. Una memoria che l’Italia dovrebbe rendere effettiva, partendo da una vera assunzione di responsabilità. L’eccidio delle Fosse Ardeatine è stato uno dei crimini più atroci commessi dal nazismo nel nostro Paese, con la stretta collaborazione dei fascisti che avvallarono quella strage. Uno dei carnefici, Priebke, è stato sepolto in un luogo segreto proprio in Italia, ma prima della tumulazione è stato permesso a numerosi affiliati ed esponenti di partiti e movimenti di estrema destra di dargli l’ultimo saluto.

Allora mi chiedo se ha senso che la strage delle Fosse Ardeatine venga semplicemente commemorata con una cerimonia il cui significato svanisce nelle orride vicende di tutti i giorni, disfacendosi dinnanzi ai raduni, agli slogan, ai concerti nazirock, alle rievocazioni lugubri, a tutto quel verminaio di facce, parole, idee, idoli e simboli, che strisciano tra i piedi di quella che è una Repubblica con una origine (e una Costituzione) antifascista. Il ricordo e la commemorazione sono imprescindibili, certo, ma la maniera più utile per ricordare le vittime e dare un senso a quell’orrore sarebbe quella di approntare una legge che renda operative le norme contro i ritorni fascio-nazisti, contro il negazionismo e contro la riproposizione anche simbolica di quegli orrori. La memoria va difesa con i fatti e con il senso di responsabilità. Altrimenti rischia di diventare solo retorica o addirittura (mi auguro ciò non avvenga mai) costume.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org