Ci sono abitudini e credenze che si radicano in fretta, soprattutto quando chi dovrebbe contrastarle e smentirle non lo fa a dovere. Ci sono osservazioni provocatorie che, pur sollevando questioni importanti, commettono l’errore di eccedere e di diventare offensive e colpevoli. Ci sono generalizzazioni che non rendono giustizia a quella verità che si reclama con forza e passione. Il tutto diviene arma pericolosa in un contesto nel quale si studia in pochi e si parla in troppi. Il fenomeno mafioso è il tema di questo Paese, è un argomento che, finalmente, torna attuale. Sono finiti i tempi in cui, a livello generale, si era smesso di parlare di clan, personaggi, complicità, fatti, connivenze, come se tutto fosse finito con gli arresti eccellenti e la risposta decisa di magistrati e forze dell’ordine. Non si parlava nemmeno di quella squallida trattativa che ha sporcato le pareti e i corridoi della nostra storia repubblicana, mietendo vittime, uccidendo gli uomini più bravi nella lotta al crimine organizzato e ai suoi referenti politici.

Oggi, la questione mafiosa, che ha definitivamente rivelato la presenza dei clan in tutte le regioni italiane, è tornata d’attualità, chiamando in causa, grazie al lavoro della magistratura, tutti coloro che, a qualsiasi livello, possono dare un contributo alla verità. Il problema è che, come spesso accade per gli argomenti di attualità, tutti pensano di poterne parlare, anche se quel fenomeno non lo hanno mai vissuto o studiato, anche se la loro unica fonte di informazione è l’editoriale di qualche più o meno bravo giornalista/opinionista tv. Ecco allora che accadono due cose: l’estremizzazione del linguaggio e delle posizioni o il proliferare di falsità nocive che inquinano la coscienza di un Paese che, peraltro, ha già il problema di avere la memoria corta. La richiesta di verità rispetto al ruolo degli apparati deviati dello Stato e delle stesse istituzioni politiche, non può diventare un attacco generalizzato allo Stato stesso, che rimane di colpo unico protagonista.

Beppe Grillo ci è cascato ancora, affermando che “la mafia aveva una sua morale, non uccideva bambini, non metteva bombe” e che “sono stati finanza e politica a corrompere la mafia”. Una farneticazione che non trova alcuna legittimità. Al di là delle solite, sterili difese d’ufficio dei suoi adepti, che parlano di frasi estrapolate da un contesto, di battuta comica (spiegassero almeno qual è la parte divertente), di provocazione (forse è il caso di ridefinire i termini di questo concetto), la sua resta una falsificazione inaccettabile. O meglio, sul fatto che la finanza sia parte attiva del marciume mafioso e degli affari criminali, possiamo anche essere d’accordo, ma affermare che la mafia sia stata corrotta dalla finanza è ignoranza storica, è una minimizzazione del ruolo e delle colpe della criminalità organizzata che, per di più, è offensiva nei confronti delle vittime e dei loro familiari. Rispondere a tale bugia, a questa stupida e irritante divisione tra vecchia mafia romantica e nuova mafia crudele perché corrotta dalla finanza (o dalla politica) è facilissimo.

Non c’è bisogno di ricorrere a concetti complessi o ad analisi di natura sociologica o criminologica. Basta affidarsi alla storia. Ai suoi nomi, ai volti, ai fatti. Lasciamo fuori i sindacalisti e i rappresentanti politici onesti, socialisti e comunisti (uccisi a decine prima della guerra e nell’immediato dopoguerra in Sicilia), i giornalisti e i magistrati: soffermiamoci solo sulle persone comuni, sui bambini e sulle bombe. E prendiamo in esame solo la mafia siciliana. Anche ponendo che il piccolo Giuseppe Di Matteo, strangolato e sciolto nell’acido a quindici anni, nella logica di Grillo sia già una vittima della “nuova mafia corrotta”, prendiamo in esame altri nomi, altre storie che appartengono alla “vecchia mafia”.

Giuseppe Letizia è il primo che torna alla mente. Un giovane pastore corleonese che, a tredici anni, ebbe la sfortuna di assistere, mentre pernottava in campagna con il suo pascolo, all’omicidio del sindacalista Placido Rizzotto da parte di Luciano Liggio, luogotenente del boss di Corleone, il medico Michele Navarra. Il ragazzino, sotto shock, venne ricoverato per una febbre alta nell’ospedale diretto dallo stesso Navarra, dove, dopo aver detto di aver assistito all’uccisione di un uomo, morì ufficialmente per una tossicosi, ma molto più probabilmente per una iniezione al veleno. Chissà se Grillo conosce questo nome. O questi altri nomi: Giovanni La Greca, Riccardo Cristaldi, Lorenzo Pace, Benedetto Zuccaro. Quindici anni i primi due, quattordici e tredici gli altri due. Uccisi a metà degli anni ’70 dal clan Santapaola. Sequestrati, strangolati e gettati in un pozzo sulle colline nella provincia nissena. La loro colpa? Aver scippato la madre del potente boss catanese Nitto Santapaola.

Vittime di una mafia che uccide da sempre chi sgarra, indipendentemente dall’età e dalle colpe. Lo raccontava Antonino Calderone, uno dei primi pentiti. Di queste storie, di vittime minorenni, come gli otto ragazzini uccisi a Gela nella famigerata strage della sala giochi, ce ne sono tante. Non dimentichiamo l’eccidio di Portella della Ginestra (in cui la gran parte delle vittime aveva meno di diciotto anni), probabilmente commessa a seguito di un patto tra mafia (quella vecchia con la sua presunta “morale”) e forze eversive di destra, che utilizzarono il bandito Giuliano come un burattino. Eccola la vecchia mafia, quella di un affiliato come Giuseppe Di Bella che, come raccontava sempre Calderone, fece uccidere suo figlio dal famigerato boss calatino Francesco La Rocca, semplicemente perché era di idee comuniste e avrebbe potuto ribellarsi e denunciare la famiglia.

Eccola la vecchia mafia, quella delle bombe che nella borgata palermitana di Ciaculli, nel 1963, ridussero in brandelli sette carabinieri, poche ore dopo un’altra autobomba esplosa a Villabate, davanti a un palazzo nel quale vi era l’autorimessa di un boss: in quel caso le vittime furono due, il custode e un fornaio. Non era lo Stato a uccidere, così come non sarà lo Stato a strangolare Giuseppe Di Matteo o a riempire di acido il recipiente nel quale sciogliere il suo corpo deperito e ormai senza vita. La richiesta di verità e l’individuazione di quei traditori delle istituzioni che hanno sulla coscienza le stragi del 1992 e del 1993 (e non solo) non deve portare a confondere le responsabilità di tutti, né deve far scordare che la mafia non è uno strumento e che semmai è il contrario. Non bisogna mai dimenticare che a combattere contro la connivenza tra mafiosi e apparati statali deviati sono stati e sono ancora uomini che lavorano per questo Stato che altri vorrebbero distruggere o conquistare in maniera autoritaria.

Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, di cui in troppi parlano a sproposito, assegnavano grandi responsabilità alle istituzioni, lavoravano per smascherare i collusi, i mandanti politici di alcuni omicidi, i complici e i traditori, ma credevano nel loro lavoro e nello Stato a cui hanno dedicato la vita. Lottavano per liberarlo. Mai si sarebbero sognati di esprimere solidarietà, nemmeno per provocazione, a due boss sanguinari, né avrebbero mai parlato di una vecchia mafia romantica e di una nuova corrotta, anche perché erano più che consapevoli che Luciano Liggio, Totò Riina, Bernardo Provenzano e Leoluca Bagarella, per citare i più noti, venivano da quella Corleone in cui, negli anni ’40, la “vecchia” mafia uccideva chiunque sgarrasse o si opponesse al suo dominio.

L’avvento della finanza ha certo modificato i campi di azione e gli ingranaggi di infiltrazione, forse anche la fisionomia classica del mafioso, ma la crudeltà e la violenza non sono mai cambiate. Bastano un po’ di memoria e un po’ di conoscenza per rendersene conto. Esattamente due elementi che, oggi, questo Paese ha purtroppo messo da parte a vantaggio del populismo, delle analisi superficiali e della sottocultura qualunquista.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org