L’orrore è qualcosa a cui ci stiamo abituando troppo. La cronaca, che ci racconta nel minimo dettaglio, a qualsiasi ora, fatti di sangue terribili, ha contribuito a edificare ed alimentare questa abitudine generale. Lo shock c’è sempre, per carità, ma poi l’emotività si spegne e inizia una rapida rimozione, per una logica di necessaria autotutela. Così, non si trova spazio per utili ragionamenti sulle responsabilità di una società sempre più individualista e violenta, nella quale prevalgono l’aggressività e l’incredibile “svalutazione” della vita umana. Una società in cui qualsiasi stupidaggine, qualsiasi normale sentimento o confusione vengono risolti con l’efferatezza sbrigativa della sopraffazione e dell’assassinio. Noi veniamo interiormente scioccati, ma di fatto ci abituiamo.

Finiamo per discutere di un episodio con le solite parole, ascoltiamo inermi chi ogni volta invoca la pena di morte, vediamo cittadini non coinvolti direttamente stazionare davanti alle caserme per poter inveire contro l’assassino, sperando in un’occasione di linciaggio. Tutte le volte mi chiedo se tra coloro che si mostrano indignati o strepitano non si nasconda un altro mostro, un’altra persona in apparenza normale e tranquilla, che dentro però cova la rabbia lucida di un killer.

Non fraintendiamo, non vuol dire che chi si indigna lo faccia solo per finta o per costruirsi un alibi. Né che siamo tutti potenziali assassini. Quello che voglio dire è che la crudeltà comunque esiste e fa parte degli uomini, ma in questo Paese, per molto tempo, si è commesso un errore grossolano e pericoloso che ancora oggi si continua a commettere: pensare che il marcio delle nostre comunità viva ai margini, che trovi origine in contesti remoti, per poi infilarsi nelle comunità “perbene” e infettarle di violenza e morte. Il disagio, la follia, l’emarginazione, le devianze, i tratti somatici (reminiscenza idiota delle fantasie lombrosiane), la provenienza etnica: secondo la maggior parte degli italiani la crudeltà non può che provenire dall’esterno delle nostre mura.

Fuori dalla nostra camera da letto, fuori dalla nostra casa o famiglia, dalla cerchia di persone che frequentiamo, dalla nostra comunità locale, regionale o nazionale. Noi siamo gli abitudinari dell’orrore, a cui, a primo impatto, diamo una risposta ben precisa, fatta di ipotesi che conducono sempre nella stessa direzione, ossia lontano da noi, per poi scoprirci sorpresi dinnanzi alla opposta realtà dei fatti. E di questo ne approfittano anche i carnefici, che sono furbi e lucidi, razionali e attenti, protagonisti di premeditazioni che continuiamo a definire erroneamente follia, sempre per quella nostra volontà di posizionare la crudeltà al di fuori delle nostre convenzioni, come se non fosse un fatto umano e sociale che ci riguarda da vicino. È successo ancora, come accadde in passato.

Il dito erroneamente puntato, da subito, sui “diversi”, sui “criminali” con l’etichetta affibbiata da anni di propaganda e di bugie (oltre che di ignoranza e disinformazione), è tipico di molti fatti di cronaca degli ultimi anni. I bersagli? Ovviamente i più facili, gli immigrati, questi “sconosciuti esseri venuti da mondi lontani, che chissà quali riti si portano dietro e quali logiche tribali!”. Ne sento parlare (fin troppo) attorno a me, ogni volta che si discute di cronaca o di reati. Poco importa che i dati forniti dai criminologi ci dicano altro, cioè che nella mappa dei reati contro la persona gli italiani hanno una schiacciante maggioranza.

Così a Novi Ligure, la giovane Erika (omicida insieme al fidanzato Omar) disse che erano stati degli albanesi a uccidere la madre e il fratellino. A Erba, invece, gli inquirenti si indirizzarono subito verso il padre/marito/genero delle vittime, un cittadino di origine nordafricana. Tutti a pensare allo straniero/criminale, etichetta tanto diffusa grazie a leghisti, razzisti e idioti vari. Soprattutto (assoluta volgarità morale oltre che ignoranza storica), tutti a utilizzare come prova della colpevolezza di uno “straniero”, in particolare se di cultura araba, la pratica dell’omicidio per arma bianca o per sgozzamento. Come se in questo continente non avessimo mai usato le lame o non avessimo mai avuto le ghigliottine. Negli ultimi eclatanti casi di cronaca, si è ripetuto ugualmente (in questa nazione non si impara mai dal passato) l’errore.

Nella vicenda di Yara, si è messo alla gogna per molto tempo un cittadino nordafricano, sul quale non c’erano prove, se non una intercettazione tradotta male. Ricordo le parole dei leghisti, soprattutto le consuete volgarità di Salvini, che immediatamente strumentalizzò (leggi qui) l’accaduto. E ora? Ora che, come nei casi di Novi e di Erba e in tanti altri, pare che il carnefice possa essere un italiano, anzi un padano? Qualcuno chiederà scusa? E chiederà scusa il sindaco di Motta Visconti che, all’indomani della strage, aveva creduto, forse l’unico, alla farsa inscenata dall’assassino, parlando (leggi qui) di emergenza ladri e promettendo un circuito di videosorveglianza in tutto il paese (magari qualche società del settore si stava già sfregando le mani)?

No, nessuno si scuserà. Perché la credenza, lo stereotipo sono più forti e radicati della verità e del pudore. Arriveranno altri casi di cronaca tremendi, arriveranno altre tragedie consumate dentro le strutture interne e familiari delle nostre comunità, ma si continueranno sempre a percepire come nemici e come minaccia coloro che non consideriamo cittadini di quelle stesse comunità o coloro che ci appaiono, per qualche ragione, diversi. Continueremo a innalzare mura per proteggerci dall’esterno, stupendoci ogni volta per l’orrore che ci devasta dall’interno e a cui, evidentemente, al di là di qualche lacrima o brivido, ci siamo tristemente abituati.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org